ANARCHICO CONTRO IL MURO |
Dopo lo sciagurato "cambio di rotta", come l'ha definito Noham Chomski, (cfr. post : Sionismo Libertario)
avvenuto in seguito alla fondazione dello Stato d'Israele, non mi
sembra comunque sia da sottovalutare la nascita , da circa un decennio e
più, in Israele di varie associazioni decise , sebbene minoritarie rispetto a quelle filo-governative, ad
opporsi, anche a rischio della vita dei propri militanti, con azioni non violente alla
progressiva escalation di violenza e di discriminazioni dell’estrema destra
israeliana , sia laica che religiosa,
nei confronti dei palestinesi. Per la sua
caratterizzazione anarchica , anche se nella sua cerchia coesistono
anche non anarchici, ed anche per le maggiori, relativamente, informazioni
su di esso, di cui dispongo, mi limiterò, almeno per il momento, a soffermarmi soltanto sul gruppo noto con il nome di “Anarchists Againts the Wall “( Anarchici contro il muro ) (ACIM) fondato nel2003 . Cito per dare un’idea anche se solo approssimativa, di questa associazione al suo metodo di lotta così come lo ha descritto Neve Gordon sulla edizione on-line di "The Nation" . (cfr brano)
Brano da commentare: “ Gli Anarchici contro il Muro non hanno
dirigenti ufficiali, non hanno un ufficio e nemmeno dei funzionari retribuiti,
eppure sono riusciti a fare molto di più di molte ONG ben funzionanti e di
molti movimenti sociali insieme […] Come attivisti ebrei essi sanno molto bene
che i militari israeliani si comportano molto diversamente quando gli ebrei
sono presenti durante una manifestazione in Cisgiordania e sanno bene che il
livello di violenza dei soldati, in genere molto severo, scema in intensità
quando ci sono loro nelle manifestazioni. Infatti, le forze militari hanno
regole di ingaggio molto più restrittive nell’uso delle armi da fuoco, quando
vi è la partecipazione di attivisti non palestinesi. Per cui , quando un
pubblico comitato di un villaggio decide di fare una protesta non violenta
contro l’occupazione delle terre, gli anarchici si mescolano con gli abitanti
del villaggio, diventando uno scudo umano per tutti quei palestinesi che hanno
scelto di seguire l’insegnamento del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King. Ed anche se gli anarchici vengono di frequente picchiati e
arrestati, loro non si arrendono “ ( Neve Gordon, Chi sono gli anarchici contro il muro, in The Nation, 30 luglio 2007)
Bibliografia: Chi sono gli anarchici
contro il muro in A Rivista Anarchica, estate 2009 p. 29
MANIFESTAZIONE DI ANARCHICI CONTRO IL MURO ALLA BASE AEREA DI SDE DOV |
Brano da commentare: ANDREA STAID: "… “Torniamo all’attualità : cosa caratterizza questo movimento degli ACIM e come viene visto dall’opinione pubblica israeliana? - URI GORDON : Come ti dicevo prima, questo movimento è caratterizzato soprattutto dalla voglia di combattere contro il muro e l’occupazione dei territori, diciamo che la cosa che lo caratterizza di più è la pratica unitaria, israeliani e palestinesi uniti nell’azione diretta non violenta contro il muro. Per quanto riguarda l’opinione pubblica israeliana è difficile rispondere, la maggior parte degli Israeliani è a favore del muro e dell’occupazione soprattutto a parole perché nella pratica anche la loro vita, la vita di tutti diventa più difficile con il muro e la sempre più ampia militarizzazione del territorio. Penso che gli ACIM non siano visti particolarmente bene dalla maggior parte dell’opinione pubblica israeliana, ma tu cosa mi diresti se ti girassi la domanda, come siete visti dall’opinione pubblica, voi anarchici italiani? […] - Andrea Staid: Hai notato un aumento della repressione di stato negli ultimi periodi? - URI GORDON: Sicuramente la repressione è aumentata molto contro gli attivisti degli anarchici contro il muro, in una delle azioni contro l’ultima guerra in Palestina ventuno membri del gruppo sono stati arrestati dopo aver bloccato l’ingresso della base delle Forze Aeree Israeliane di Sde Dov, nella parte nord di Tel Aviv. I manifestanti, che indossavano maschere bianche macchiate di sangue finto, si sono sdraiati sulla strada fingendo di essere morti. Sono stati arrestati dopo essersi spostati dalla strada, mentre stavano già sul marciapiede. La protesta sarebbe dovuta servire a mostrare ai piloti delle Forze Aeree Israeliane il risultato delle loro azioni a Gaza. Dall’alto del cielo, un pilota che schiaccia un bottone può ignorare, dimenticare, o non essere neppure in grado di capire che in quel preciso momento ha ucciso persone innocenti”. ( Uri Gordon Intervistato da Andrea Staid , maggio 2009).
Bibliografia: Noi anarchici contro il muro. in Andrea Staid, Intervista
a Uri Gordon in A Rivista Anarchica, estate 2009 pp. 30-31 .
ANARCHICI CONTRO IL MURO E ABITANTI DI BIL'IN |
Un esempio di tale modo
di lottare lo si può constatare nel villaggio
palestinese di Bil’in, dove su decisione di un comitato in cui
partecipano sia palestinesi che israeliani, si svolgono periodiche
manifestazioni contro
l’occupazione e la pulizia etnica, tra cui la famigerata detenzione
amministrativa , senza accusa né processo , che , tra gli altri, fu
applicata anche nei confronti del giornalista palestinese Mohammed Al
Qiq, che, detenuto dal 21 novembre 2016, reagì ad essa con un lungo (94
giorni) ed estenuante sciopero della fame conclusosi , per quanto ne
so, il 27 febbraio . Già nel 2009 Maria Matteo sottolineava la stretta
collaborazione che sussisteva fra gli Anarchici contro il Muro e gli
abitanti del villaggio palestinese di Bil'in"(cfr. primo brano) . Oggi
quella collaborazione è ancora in atto, ed è stata recentemente
assunta dalla nota filosofa contemporanea, Judith Butler, come uno degli esempi più importanti di azione diretta anarchica e della contemporanea
“pratica della libertà” (cfr. secondo brano).
Brani da commentare 1) “
Parimenti in Israele gli
“anarchici contro il muro” hanno intrapreso un percorso di solidarietà e
condivisione delle lotte contro il muro dell’ Apartheid in Cisgiordania , che
li ha portati fianco a fianco dei contadini dei villaggi che si battono per
l’acqua, gli ulivi e gli agrumeti, per il futuro dei loro figli, per non essere
costretti all’esilio. In due anni hanno
diviso il pane e le pallottole di gomma
sparate dall’esercito israeliano, sono stati feriti ed arrestati più volte.
Hanno rallentato ma non abbattuto il muro razzista , ma hanno tirato giù un ben
altro muro, una ben altra frontiera, quella della differenza e dell’odio.
Quando gli integralisti di Hamas hanno incitato la popolazione del villaggio di
Bil’in
a colpirli e cacciarli perché ebrei, la gente di Bil’in . che aveva imparato
a conoscerli e a capire le loro ragioni, si è opposta con fierezza”. Maria Matteo , Ad ovest di Gaza , febbraio 2009 ); 2) “
Non sono certa di intendere l'anarchismo come un'identità, ma
piuttosto come un movimen to che non sempre funziona in modo continuo.
Per quanto mi riguarda , esistono almeno due punti di riferimento nella
politica contemporanea. Uno ha a che fare con gli Anarchici contro il
Muro ( Anarchist Against the Walla ). L'altro è il modo in cui
l'anarchismo queer si colloca come alternativa importante movimento
crescente del libertarismo gay. Sebbene non abbia dubbi che gli
anarchici contro il muro in Israele/Palestina siano interessati alla
storia del movimento anarchico mi sembra che questo sia un caso in cui
l'azione diretta contro una forza militare e contro una politica
segregazionista sia un evento formidabile. Seguendo , per esempio, le
dimostrazioni settimanali a Bi’ lin, è possibile vedere
corpi umani che si dispongono lungo la traiettoria delle macchine impiegate
nella costruzione del muro di separazione, che si espongono ai gas lacrimogeni
e producono letteralmente un’interruzione e un cambiamento di rotta del potere
militare. Il punto è entrare dentro la scena, negli edifici, nelle dinamiche,
arrestarle, cambiare la loro direzione, ma anche utilizzare il corpo come uno
strumento di resistenza. Naturalmente è importante che ci siano telecamere, lì
sulla scena, e che queste macchine funzionino come contro-macchine,
documentando la violenza di stato di Israele, ma anche ostruendo il suo
tentativo di controllare la copertura mediatica delle proprie azioni. Poiché il
razzismo sta alla base di questo muro di segregazione, vediamo anche lo
“scandalo” della violenza perpetrata
contro gli attivisti israeliani. Ovviamente le aggressioni e uccisioni
di quel
genere provocano un’ indignazione di gran lunga maggiore rispetto a
quella che si
prova quando le vittime sono palestinesi o altri stranieri di quella
regione.
..." (Judith Butler intervistata da Jamie Hecckert) . -
Bibliografia: Primo brano in Maria Matteo , Ad ovest di Gaza in
A rivista anarchica n. 341 febbraio 2009, p. 6 e secondo
brano in Judith Butler, Sull'anarchismo in La pratica della libertà ed i suoi limiti a cura di Luciano Lanza, Mimesi/Libertaria 2015 pp. 87 -88. Cfr. anche Judith Butler , Sostengo un ebraismo non associato alla violenza di Stato, in A chi spetta una buona vita? , Sassi nello stagno/politica, Nottetempo 2013.
ATTIVISTA PALESTINESE PER I DIRITTI CIVILI E LA FINE DELL'OCCUPAZIONE MILITARE |
Prendendo come esempio
le manifestazioni settimanali non violente, nel villaggio della Cisgiordania di Bill’in , iniziate nel
2005, contro l’occupazione israeliana ,
molti altri villaggi della Cisgiordania si sono mossi in questo senso,
istituendo comitati popolari al fine di
organizzare , ogni venerdì, proteste
contro il muro. Tra questi villaggi si distingue il villaggio di Nabi Saleh, ove il comitato popolare sorse soprattutto su iniziativa delle donne
nel 2009. ( cfr. brano)
Brano da commentare: “ … E’
dalle donne che è partito tutto , nel nostro villaggio non c’è una netta
distanza tra uomini e donne, la nostra forza è avere il supporto degli uomini
altrimenti tutto sarebbe difficile [….] Le donne [ nota mia: sotto l’occupazione militare
israeliana ] soffrono moltissimo. Soffrono due volte, perché hanno la loro
battaglia personale, visto che partecipano attivamente a tutte le iniziative,
come gli uomini, e vengono umiliate e arrestate esattamente come gli uomini. E
poi sono costrette a vedere lo stesso trattamento inferto ai propri mariti,
padri. E devono essere forti per i loro figli.
[…] La vita è molto difficile
a Nabi saleh. E’ un piccolo villaggio e ogni
venerdì diventa un campo di battaglia .
Il villaggio scompare sotto una nuvola di gas lacrimogeni molto tossici, che
l’esercito israeliano lancia contro i manifestanti. Questo inevitabilmente ha
degli effetti negativi sulla salute degli abitanti del villaggio, dei bambini
specialmente, che stanno soffrendo molto più degli adulti. I bambini stanno diventando un bersaglio per
l’esercito israeliano, sono i più deboli; 33 bambini del villaggio con meno di
16 anni sono stati arrestati dall’esercito israeliano e trasferiti in una prigione vicino a Jaffa.
Non sono autorizzati a stare insieme ad altri detenuti palestinesi perché
secondo il governo israeliano ne sarebbero infuenzati. A volte li tengono insieme a criminali
israeliani. L’esercito entra nelle nostre case anche durante la notte.
Svegliano i nostri bambini anche durante la notte . Svegliano tutti i bambini tra i 10 e i 15 anni per schedarli.
Chiunque può immaginare cosa prova un bambino che viene svegliato nel cuore
della notte e trova la sua stanza piena di soldati. […] La nostra videocamera è
la nostra arma ed è molto meglio che lanciare pietre. Abbiamo cominciato anche
a tenere corsi per i bambini tra i 10 e i 17 anni e ora sanno come usarla. Ci aiutano gli attivisti
israeliani di B’Tsalem. Abbiamo cominciato a documentare tutto
per poi metterlo in internet. L’anno scorso un deputato del Congresso americano (Geoff
Davis) è venuto a casa mia , voleva provare che noi palestinesi siamo
terroristi e che Israele ha il diritto di usare ogni mezzo per difendersi.
Abbiamo avuto una lunga conversazione e
poi a un certo punto gli ho fatto vedere un video dove si vede mio figlio di 12
anni a cui l’esercito aveva sparato, in terapia intensiva. [ …] Dopo quella
visita è diventato un attivo sostenitore della nostra battaglia all’interno del
Congresso americano. […] Altri deputati
del Congresso sono stati invitati da lui a venire a Nabi Saleh
per vedere cosa succede. Per me, per noi
palestinesi, questa è stata una vittoria enorme, perché cambiare una mentalità
è più importante che lanciare una pietra “.
( testimonianza di Namal Al Tamini (o Tamimi)
sulla resistenza nonviolenta a Nabi Saleh
in Miriam Marino Con le unghie e con i
denti ……. )
Bibliografia : in Miriam
Marino Con
le unghie e con i denti. La resistenza delle donne in Palestina,
Red Star Press 2017 pp. 101, 102, 103. L’autrice, non menziona nel libro
, la data di questa testimonianza, che,
forse, se non mio sbaglio, risale al 2012-2013.
Navigando su internet comunque appaiono ancora nel
gennaio 2018 notizie di
persecuzioni contro gli abitanti di Nabi Saleh e in particolare contro membri della famiglia Tammimi ( Namal, Tariman e i loro figli e nipoti adolescenti)
LIBERTARI PALESTINESI
Nonostante l’assenza in Palestina, di un movimento
anarchico organizzato e di un preciso
concetto politico e filosofico di
“anarchia”, corrispondente a quello diffuso in Occidente, sono comunque diffusi sentimenti libertari e
modalità di azione antiautoritari (cfr.
brano)
Brano da commentare: “…… In
Palestina gli elementi della lotta popolare sono stati storicamente
auto-organizzati. Anche se non esplicitamente identificati come “anarchici “.
La gente ha sempre agito orizzontalmente, o non gerarchicamente, organizzando
l’intera propria vita” dice Beesan Ramadan, un’altra anarchica locale, che
descrive l’anarchismo come una “tattica” mettendo in discussione il bisogno di
etichettarla. E poi lei continua “ C’era
già nella mia cultura e nel modo in cui l’attivismo si è mosso. Durante la
prima intifada, per esempio, quando la casa di qualcuno veniva demolita la
gente si organizzava per ricostruirla quasi spontaneamente. Come anarchica
palestinese io non vedo l’ora di ritornare alle radici della prima intifada.
[…] “Essere un anarchico non significa sventolare una bandiera nera e rossa o
diventare un black bloc” puntualizza Ramadan riferendosi
alla consolidata tattica di protesta
anarchica di vestire di nero e di coprirsi la faccia. “ Io non voglio imitare
nessun gruppo occidentale nel modo in cui
loro “fanno” gli anarchici … non funziona qui perché c’è bisogno di creare una piena
consapevolezza della gente- La gente non comprende questo concetto “. In
effetti Ramadan pensa che la scarsa visibilità degli anarchici palestinesi, e
la mancanza di conoscenza dell’anarchismo più in generale tra i palestinesi,
non significhi necessariamente che siano pochi. “ Io penso che ci sia un buon
numero di anarchici in Palestina” sottolinea, ma ammette che “nella maggior
parte dei casi, per il momento, si tratta di un convincimento individuale anche
se siamo tutti attivi ciascuno a suo modo.” […]
“ Essere semplicemente parte di un a opposizione politica non ti salverà
“ avverte Ramadan, che aggiunge che per molte donne “ quando ti opponi
all’Occupazione devi anche opporti alla famiglia”. In effetti la presenza delle
donne nella protesta maschera il fatto che molte donne devono combattere proprio
per esserci. Anche solo partecipare a incontri serali costringe le giovani
donne a superare confini sociali inesistenti per i maschi. […] “ Come
palestinesi dobbiamo stringere legami con gli anarchici arabi” dice Ramadan
influenzata dalle sue letture di testi di anarchici in Egitto e in Siria” “ Noi
abbiamo molto in comune, ma, a causa dell’isolamento , finiamo con l’incontrare
anarchici internazionali che qualche volta, per quanto buona sia la loro politica, rimangono bloccati nei
loro luoghi comuni e nell’islamofobia”. […] “ La gente ha bisogno del
nazionalismo nei tempi della lotta , ammette, ma talvolta diventa un ostacolo.
Sai qual è il senso negativo del nazionalismo? Significa che pensi solo come palestinese, che i palestinesi
sono gli unici che soffrono nel mondo” E anche Nimer aggiunge : “Si sta
parlando di sessant’anni di occupazione e di pulizia etnica, e sessant’anni di
resistenza attraverso il nazionalismo. E’ un tempo troppo lungo, non è sano. La
gente può passare molto velocemente dal nazionalismo al fascismo” (Conversazione con
anarchici palestinesi di Joshua Stephens in instituteforaanarchiststudies, luglio 2013, traduzione di Fabrizio Eva)
Bibliografia : in Nel nome di nessun Dio, a cura di Luciano
Lanza in Libertaria 2016 , Mimesis, pp. 104 e 105
Un tipico esempio di tale “anima libertaria” lo si può
riscontrare anche in un manifesto redatto da
“ ragazzi di Gaza” (credo) nel 2011 (cfr. brano)
Brano da commentare: “ “ Vaffanculo Hamas, Vaffanculo Israele, Vaffanculo Fatah, Vaffanculo Onu, Vaffanculo Urwa, Vaffanculo USA! Noi, i giovani di Gaza, siamo stufi
di Israele, di Hamas, dell’occupazione, delle violazioni dei diritti umani e
dell’indifferenza della comunità internazionale! Vogliamo urlare per rompere il muro di silenzio , ingiustizia e indifferenza, come gli F!6 israeliani
rompono il muro del suono; vogliamo urlare con tutta la forza delle nostre
anime per sfogare l’ immensa frustrazione che ci consuma per la situazione del
cazzo in cui viviamo, siamo come pidocchi stretti tra due unghie, viviamo un
incubo dentro un incubo, dove non c’è spazio né per la speranza né per la libertà. […] C’è
una rivoluzione che cresce dentro di noi, un’ immensa insoddisfazione e frustrazione che
ci distruggerà a meno che non troviamo un modo
per canalizzare questa
energia in qualcosa che possa sfidare lo status
quo e ridarci la speranza. La goccia che ha fatto traboccare il vaso facendo
tremare i nostri cuori per la frustrazione e la disperazione è stata quando il 30
novembre gli uomini di Hamas sono intervenuti alla Sharek Youth Forum, un’organizzazione di giovani molto
seguita con fucili, menzogne e violenza, buttando tutti i volontari fuori,
incarcerandone alcuni, e proibendo allo Sharek di continuare a lavorare. Alcuni giorni
dopo , alcuni dimostranti davanti alla sede dello Sharek
sono stati picchiati, altri incarcerati. Stiamo davvero vivendo un incubo dentro un
incubo. E’ difficile trovare le parole per
descrivere le pressioni a cui siamo
sottoposti. Siamo sopravvissuti a malapena all’ Operazione
Piombo Fuso, in cui Israele ci ha
bombardati di brutto con molta efficacia, distruggendo migliaia di case e ancora più persone e sogni. Non
si sono sbarazzati di Hamas, come speravano, ma ci
hanno spaventati
a morte per sempre, facendoci tutti ammalare di sindromi
post-traumatiche, visto che non avevamo
nessun posto dove rifugiarci. Siamo giovani dai cuori
pesanti. […] Sorridiamo per nascondere il dolore. Ridiamo per
dimenticare la guerra. Teniamo alta
la speranza per evitare di suicidarci qui e adesso. Durante la guerra
abbiamo avuto la netta sensazione che Israele voglia cancellarci dalla faccia della terra. Negli ultimi anni Hamas ha fatto di tutto
per controllare i nostri pensieri, comportamenti e aspirazioni. […] Non
vogliamo odiare, non vogliamo sentire
questi sentimenti, non vogliamo più essere vittime. Basta! Basta dolore,
basta lacrime, basta sofferenza, basta controllo, proibizioni, giustificazioni
ingiuste, terrore, torture, scuse, bombardamenti, notti insonni, civili morti,
ricordi neri, futuro orribile, presente che ti spezza il cuore, politica perversa,
politici fanatici, stronzate religiose, basta incarcerazioni! Diciamo Basta! Questo non è il futuro che vogliamo! Vogliamo
tre cose. Vogliamo essere liberi. Vogliamo poter vivere una vita normale.
Vogliamo la pace. E’ chiedere troppo? Siamo un movimento per la pace fatto dai
giovani di Gaza e da chiunque altro li voglia sostenere e non si darà pace
finché la verità su Gaza non venga fuori e tutti ne siano a conoscenza, in modo
tale che il silenzio-assenso e l’indifferenza urlata non siano più accettabili. Questo è il manifesto dei giovani di Gaza per
il cambiamento! Inizieremo con la distruzione
dell’occupazione che ci circonda, ci
libereremo da questo carcere mentale per guadagnarci la nostra dignità e il
rispetto di noi stessi. Andremo avanti a testa alta anche quando ci opporranno
resistenza. Lavoreremo giorno e notte per cambiare le miserabili condizioni di
vita in cui viviamo.
Costruiremo sogni dove incontreremo muri. Speriamo solo che tu – sì, proprio tu che
adesso stai leggendo questo manifesto! - Ci supporterai. […] Vogliamo essere
liberi, vogliamo vivere, vogliamo la pace. LIBERTA’ PER I GIOVANI DI GAZA! " (Testo diffuso da LAD - Libero Ateneo della Decrescita (ecoculture.noblogs.org) CUSA- umanesimo anarchico (cusa splinder.com)
Bibliografia : in Nel nome di nessun Dio, a cura di Luciano
Lanza in Libertaria 2016 , Mimesis, pp. 106 e 107
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LENTO, PERO AVANZO |
Ormai dopo
vent’anni dall’ apparizione dell’
Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale (Ezln) è stata superata quella sostanziale
disinformazione su questo movimento ,
messa in rilievo , nel 1998, da Sylvie Deneuve e Charles Reevee e che secondo loro rendeva alquanto acritica l’ entusiastica accoglienza dell'ideologia zapatista negli ambienti
anarchici e libertari occidentali. (cfr. brano) .
Brano da commentare: “ Nell’ età dell’oro
del “socialismo realmente inesistente”, c’erano i viaggi organizzati verso i
paesi dell’avvenire radioso. I fedeli venivano allora a manifestare il proprio
entusiasmo per una realtà messa in scena dai signori del luogo. Così sono stati
visitati l’URSS del socialismo dei soviet, la Cina del socialismo maoista,
l’Albania del socialismo in miniatura, Cuba del socialismo barbuto, il
Nicaragua del socialismo sandinista, eccetera. Guai a chi contestava il carattere oggettivo, scientifico,
indiscutibile di queste realtà costruite. Fino al giorno in cui questi sistemi
sono sprofondati. Si era creduto di vedere, e non s’era visto nulla!
Ciononostante ne è stata tratta qualche lezione? Bisogna credere di no! Ai
giorni nostri l’epicentro della rivolta
in queste regioni si è spostato verso Nord. Nella foresta Lacandona e nei suoi dintorni, i dati della politica marxista-leninista
tradizionale sono stati scombussolati dagli sconvolgimenti del mondo. Avendo un
nuovo ordine mondiale sostituito la divisione in due blocchi, i commissari politici hanno
aggiornato la propria identità e sono anche pronti a citare Bakunin, benché ,
per prudenza, preferiscono i testi di teologia della liberazione cristiana o
magari Shakespeare. Non c’è voluto di più perché i libertari, di Francia e di Navarra, si
convincessero che questa era la volta buona, e che un movimento politico e
militare poteva diventare portatore d’ideali di emancipazione sociale. Sono
stati la semplice evocazione di Zapata e il ricordo di un “ Messico al di sotto
del vulcano” ad averli sedotti? […]
Questi apostoli dello zapatismo sono, d’altra parte, incapaci di fornirci
la minima informazione e la minima testimonianza diretta su quanto accade nelle
campagne messicane: sulle azioni di occupazione, sulle forme organizzative
scelte dai contadini in lotta, sui loro obiettivi e sulle prospettive politiche
. E sono altrettanto incapaci di apportare il minimo elemento critico che ci
permetta di approfondire la conoscenza dell’organizzazione di avanguardia che
dirige la lotta armata, Infine il sostegno esterno all’ Ezln è
rimasto prigioniero della sua natura essenzialmente nazionalista …” (Sylvie Deneuve e Charles Reevee, Al di là del passamontagna del Sud-Est messicano :
1998)
Bibliografia: Sylvie
Deneuve e Charles Reevee, Al di là del passamontagna del Sud-Est messicano , NN 1998 pp. 12-13
Attualmente, a
differenza di allora, sussiste sullo zapatismo un ampia e documentata bibliografia e numerose sono anche le testimonianze
dirette sulla “democrazia
comunitaria” dei villaggi zapatisti da parte di libertari e libertarie stranieri, tra cui
italiani , i quali, per la loro
serietà d’ intenti , si distinguevano dai “turisti” occasionali e con paraocchi ideologici. Una
testimonianza di tale distinzione risale già ai primi tempi dell’ insurrezione
zapatista. (cfr. brano) .
Brano da commentare: “ Domanda: Si può parlare
di turismo rivoluzionario? Risposta: Per
alcuni certamente sì. Sono quelli che arrivano senza conoscere la realtà
zapatista, con l’unico scopo di vedere e conoscere Marcos, il mito. In genere
stanno lì due o tre giorni, contenti di avere parlato con un tizio
incappucciato. Poi qualcuno se ne va, incapace di sopportare la lontananza
dalle comodità occidentali. Altri restano cercando di rendersi utili, di
aiutare gli zapatisti. Ma in questo
molti si sentono in grado di fare delle critiche, di sputare sentenze, di dare
degli insegnamenti. Con le loro certezze ideologiche, e soprattutto l’arroganza
occidentale, pretendono di insegnare come si fa una rivoluzione ad una comunità
che ha resistito agli spagnoli per centinaia di anni, o
come si dovrebbe coltivare un orto o costruire una casa. Una visione paternalista, se non colonialista,
anche se nascosta da idee rivoluzionarie. […] Al contrario, per fortuna, c’è
chi arriva per capire, conoscere, aiutare, prima ancora di giudicare ed
“insegnare”. ( Intervista, nel 1997, di Giordano Cotichelli ad Alessandro Simoncini , che tornava da un viaggio in Chiapas durato più di quattro mesi)
Bibliografia: Intervista
di Giordano Cotichelli ad Alessandro Simoncini , Il Chiapas e noi in A Rivista anarchica n.
237 giugno 1997 p.32
Tra le testimonianze di quest’ultimo tipo
di “turisti”, autenticamente solidali, mi limito, in questo
post, per ragioni di spazio,a citare quelle che dall’
estate del 2014 sino al dicembre
gennaio-gennaio 2016 Orsetta Bellani scrisse dal Chiapas per A rivista anarchica e ora
raccolte nel libro Indios
senza re. Conversazioni con gli zapatisti su autononomia e
resistenza .
Particolarmente interessanti, a mio parere,
sono tra i temi affrontati , nel libro. : il problema femminile ( primo
brano), l’educazione della gioventù ( secondo brano) e il finale obiettivo del movimento (terzo
brano)
Brani da commentare: 1) “
Prima dell’arrivo dei conquistadores europei, nelle comunità indigene non
vigeva la parità tra i generi, ma il maschilismo e il patriarcato oggi
imperanti sono stati importati dal vecchio mondo. L’ invasione coloniale ha infatti imposto la
religione cristiana, portatrice dell’idea che la causa di tutti i mali è Eva,
la donna . Originariamente i popoli indigeni
rispettavano maggiormente la donna in quanto creatrice della vita, e in
certi casi le riservavano un ruolo centrale nella società. […] Oggi le
zapatiste, come molte altre donne chapaneche, lottano
per i propri diritti cercando di coinvolgere anche gli uomini. […] La Legge Rivoluzionaria delle Donne è in vigore nei
territori autonomi zapatisti e prevede, inoltre, il diritto per le donne a un
salario degno, a salute, educazione, a ricoprire incarichi politici e militari, a
non essere vittima di maltrattamenti e poter scegliere il proprio partner . […]
I diritti che le zapatiste rivendicano nella loro legge possono sembrarci scontati,
ma forse non lo erano per le nostre nonne, né lo sono per molte donne del
pianeta. Per le indigene del Chiapas rappresentano una vera e propria
rivoluzione. […] Molte rivendicazioni delle zapatiste, come di altre indigene
latino-americane, sono simili a quelle del femminismo urbano. Le donne chapaneche hanno rivisto le teorie del Nord geopolitico e le hanno
trasformate a partire, dalla propria cultura e cosmovisione, producendo nuovi
significati che sono stati a loro volta spunti di. I contenuti non devono
essere delle mere speculazioni intellettuali riflessione per il pensiero
femminista. E’ il cosiddetto “femminismo comunitario”, che combatte il
patriarcato a partire dal modo di pensare indigeno e “decolonizza” la parola
“femminismo” , figlia del pensiero
filosofico occidentale, pur nel rispetto della lotta delle donne europee e
nordamericane. “; 2) “ Il
sistema scolastico zapatista vuole “decolonizzare l’educazione” e segue i
principi del pedagogo brasiliano Paulo Freire. L’idea è che i programmi scolastici non
siano schemi fissi e granitici, ma delle
guide fluide che possono essere cambiate di volta in volta, e che prendono
forma attraverso il dialogo tra educatori, comunità e alunni. I contenuti non
devono essere delle mere speculazioni intellettuali, ma si devono calare nella
quotidianità degli alunni, riflettendo criticamente su situazioni esistenziali
significative per loro. […] Nella scuola della comunità Comandanta Ramona maschi e femmine dormono in stanze
separate ma contigue. Crescono insieme, s’innamorano, scoprono l’amicizia tra
uomo e donna. Queste ragazze studiano, prendono sicurezza in se stesse e nelle
proprie capacità, mentre vedono gli uomini intorno a loro cucinare e pulire. E’
una rivoluzione sociale, se si pensa che probabilmente le loro madri sono analfabete e sono uscite poco di casa,
educate a servire i loro padri e poi i
mariti e i figli.” ; 3) “ Il buen vivir è una filosofia di vita presente nella
cosmo visione e nelle pratiche dei popoli
nativi americani, e si modella a partire dal conmtatto tra la cultura indigena ancestrale e la civilizzazione
europea. […] Buen vivir non è vivere bene ,ma è avere una vita
degna, che dev’essere conquistata. Non è un’idea romantica di ritorno alla vita
silvestre, ma una proposta politica che implica una critica al concetto di
sviluppo e allo stile di vita occidentale, ambientalmente insostenibile. Il buen vivir è uno strumento di resistenza all’estyrattivismo
capitalista, e appare sempre più frequentemente nei comunicati dell’ EZLN.
Nelle lingue tzeltal e tzotzil
dei maja del
Chiapas, il
concetto di buen vivir viene designato con il termine lekil kukxlejal : “ Il lekil kukxlejal è la buona vita per antonomasia. Non è
un’utopia perché non si riferisce a un sogno inesistente. Il lekil kukxlejal è esistito, si è degradato però non si è estinto, ed è possibile
recuperarlo.” Il lekil kukxlejal non è un’azione soggettiva ma collettiva.
Si manifesta nella vita comunitaria che tiene la sua base nell’assemblea, è il
lavoro collettivo e la partecipazione alle feste, è difesa del territorio e
resistenza a modelli di vita non accettabili dalla comunità “. ( da Orsetta Bellani , Indios senza re….)
Bibliografia: Orsetta Bellani Indios
senza re. Conversazioni con gli zapatisti su autononomia e
resistenza, La
Fiaccola 2016 (primo brano) p. 38, 36, 39 L’ordine delle pagine segue quello delle mie
citazioni ( non so se è permesso farlo); (secondo brano) p. 49 e 50 ; (terzo brano) p. 99 e 100.
ROJAVA
ROJAVA: MURRAY BOOKCHIN E IL PASSAGGIO DAL MARXISMO-LENININISMO-MAOISMO AL CONFEDERALISMO DEMOCRATICO
A partire dal 2002 , le teorie dell'ecologia e del municipalismo libertario di Murray Bookchin ( cfr infra post: Anarchici americani contemporanei) svolsero una notevole influenza sul leader curdo, Abdullah Ӧcalan e sul PKK ( Partito dei lavoratori curdi) , fondato nel 1978 e orientato , per lungo tempo, su posizioni rigorosamente marxiste-leniniste. Questa evoluzione , in senso libertario, del pensiero politico e sociale di Ӧcalan e del PKK è stata ben analizzata dalla compagna di Murray Bookchin , Janet Biehl in un suo articolo, da cui traggo alcuni frammenti. (cfr. brano)
Brano da commentare: “ …
Poi , nel febbraio 1999, dopo una spettacolare caccia all’uomo a livello
internazionale, Abdullah Ӧcalan fu
catturato in Kenja, arrestato e tradotto in Turchia per
subire un processo con l’accusa di tradimento. Seguì per Ӧcalan ,
una lunga fase di ripensamento. Dopo il crollo dell’Unione sovietica nel 1991,
egli era uno dei tanti personaggi della sinistra internazionale che avevano
respinto il marxismo-leninismo, il “socialismo reale”, lo stalinismo, in quanto
autoritari e dogmatici. Il popolo curdo, sosteneva, “ deve reagire alle
esigenze del momento storico” e “riconsiderare i principi, i programmi e le
modalità di azione- […] “ La situazione , tanto per i Turchi quanto
per i Curdi, sarebbe migliore in una Turchia veramente democratica”, affermò Ӧcalan
davanti agli inquirenti. “ E la Turchia non può essere una vera democrazia se
non riconosce l’esistenza e i diritti del popolo curdo [.. .] Quale che fosse
l’idea che gli inquirenti si erano fatti di quel messaggio, era del messaggero
che non si curavano: incriminarono Ӧcalan per tradimento e lo condannarono a morte.
Pochi anni dopo, la domanda di entrare nell’Unione Europea impose alla Turchia
di eliminare la pena di morte e la sentenza di Ӧcalan fu commutata in
ergastolo. Fu incarcerato nell’isola di di Imrali nel mar di Marmara. […] I suoi avvocati
gli portavano libri da leggere, testi di storia, di sociologia e di altri
argomenti. Tra il 2001 e il 200 si interessò alle opere di Bookchin, soprattutto a Ecologia della libertà e a The rise of Urbanization, le cui traduzioni in turco erano state pubblicate diversi anni
prima. […] Anche se languiva dietro le sbarre, Ӧcalan riusciva a comunicare
con il popolo curdo attraverso i propri legali. Cominciò così a raccomandare Bookchin. Invitò tutti i sindaci
dei territori curdi a leggere Urbanization Without Cities e tutti i militanti a studiare L’
ecologia della libertà. […] Alla morte
di Bookchin, nel luglio 2006, l’assemblea del PKK ha reso omaggio a “uno dei
maggiori scienziati sociali del ventesimo secolo”. Bookchin “ ci ha introdotto al pensiero dell’ecologia sociale, - ha
dichiarato l’assemblea – e ha contribuito a sviluppare la teoria socialista per
farla avanzare su basi più solide.” Ha indicato come tradurre in realtà un
nuovo sistema democratico. “ Ha avanzato il concetto di confederalismo, un modello che noi crediamo creativo e
realizzabile “. L’ assemblea ha anche affermato : “ Le tesi [ di Bookchin ] sullo Stato, il potere, la gerarchia saranno messe in pratica e
attuate attraverso la nostra lotta [….] Realizzeremo questa promessa come prima
società che stabilisca un concreto confederalismo democratico “. […] Nel luglio 2011 un
congresso straordinario al Diyarbakir ( la capitale curda de facto) ha
dichiarato “l’autonomia democratica”,
intendendo con ciò che le città e i centri urbani curdi tradurranno in pratica
questo principio costituendo istituzioni democratiche e organizzazioni della
società civile. […] Le organizzazioni sono in fase di attuazione , ma se si
considera che sono state create in condizioni di costante repressione e di
guerra, è notevole quanto si è di già realizzato” ( Janet Biehl, La strana coppia , 2013 )
Bi bliografia : Janet
Biehl, La
strana coppia in A rivista anarchica n. 381, giugno 2013, p.
92, 95, 96. Cfr. anche a p. 95, dove Janet Biehl
riferisce i sentimenti di profonda e reciproca stima , che si scambiarono, per
lettera, Ӧcalan e Bookchin. Bisogna inoltre considderare che Janet Biehl tornando sull'argomento pur continuando a mettere in risalto le conquiste rivoluzionarie e libertarie nel Rojava ha anche espresso alcune perplessità su alcuni "aspetti inquietanti" di quel movimento, tra cui il culto della personalità riservato a Ӧcalan in Janet Biehl, I paradossi della liberazione in A rivista anarchica , n. 411 novembre 2016 p. 23 ss.
MILIZIANA E MILIZIANO CURDI
Sulle affinità e sulle differenze tra il confederalismo democratico , soprattutto così come esso si sta realizzando nel Kurdistan, e il confederalismo anarchico è tuttora aperto, nell’ambito del movimento anarchico, un dibattito, che, comunque, non può prescindere dal fondamentale contributo dato ad entrambi questi due concetti dalla teoria del “municipalismo libertario” di Bookchin . Mi limito , qui, a citare alcuni brani tratti da due contrapposte interpretazioni su questo complesso e attualissimo problema. Il primo brano è di David Graeber e il secondo di Zafer Onat . Ed è, a mio parere, interessante notare che entrambi i brani pongano particolarmente l'accento, anche se per giungere poi a conclusioni diverse , sul fenomeno delle milizie nella rivoluzione sociale spagnola (cfr. post "LOS MILICIANOS .....) e nella lotta per la propria autonomia nel Kurdistan. " (cfr. brani)
Brani da commentare : 1)“ La regione autonoma del
Rojava,
così come esiste oggi, è uno dei pochi raggi di luce – un raggio di luce molto
luminoso, a dire il vero – a emergere dalla tragedia della Rivoluzione siriana.
Dopo avere scacciato gli agenti del
regime di Assad nel
2011, e nonostante l’ostilità di quasi tutti i suoi vicini, il Rojava non
solo ha mantenuto la sua indipendenza, ma si è configurato come un
considerevole esperimento democratico. Sono state create assemblee popolari che
costituiscono il supremo organo decisionale , consigli che rispettano un
attento equilibrio etnico (in ogni municipalità, per esempio, le tre cariche
più importanti devono essere ricoperte da un curdo, un arabo e un assiro o
armeno cristiano, e almeno uno dei tre deve essere una donna), ci sono consigli
delle donne e dei giovani, e , in un richiamo degno di nota alle Mujeres Libres ( Donne libere) della Spagna, un’armata
composta esclusivamente da donne, la milizia “YJA Star” ("l'Unione delle
donne libere”, la cui stella nel nome si riferisce all’antica dea mesopotamica Isthar),
che ha condotto una larga parte delle operazioni di combattimento contro le
forze dello Stato Islamico. [...] Il PKK ha dichiarato che esso non cerca
nemmeno più di creare uno Stato curdo. Invece, ispirato in parte dalla visione
dell'ecologista sociale e anarchico Murray Bookchin, ha adottato una visione di
"municipalismo libertario", invitando i curdi a formare libere
comunità basate sull'autogoverno, basate sui principi della democrazia diretta,
che si federeranno tra loro aldilà dei confini nazionali - che si spera che col
tempo diventino sempre più privi di significato. In questo modo, suggeriscono i
Curdi, la loro lotta potrebbe diventare un modello per un movimento globale
verso una radicale e genuina democrazia, un'economia cooperativa e la graduale
dissoluzione dello stato-nazione burocratico. [...] Ora l'ISIS è tornato con
una gran quantità di carri armati americani e di artiglieria pesante sottratti
alle forze irachene, per vendicarsi contro molte di quelle stesse milizie
rivoluzionarie a Kobané, dichiarando la loro intenzione di
massacrare e ridurre in schiavitù - l'intera popolazione civile.[...] Se oggi
c'è un analogo dei Falangisti assassini e superficialmente devoti a Franco, chi
potrebbe essere se non l'ISIS? Se c'è un analogo delle Mujeres Libres di
Spagna, chi potrebbe essere se non le coraggiose donne che difendono le
barricate a Kobané? ...." ( David Graeber: Perché il mondo sta
ignorando la rivoluzione dei Curdi in Siria? In The Guardian) ; 2) “ … Prima di tutto dobbiamo riconoscere
che il processo nella Rojava ha caratteristiche progressiste, come i
passi importanti nella direzione della liberazione della donna, come il
tentativo di costruire una giustizia laica e pro-sociale insieme ad una strutura democratica pluralista mentre ad altri
gruppi etnici e religiosi viene data una rappresentanza nella amministrazione.
Tuttavia il fatto che la struttura che sembra emergere
non miri alla eliminazione della proprietà privata e quindi alla abolizione
delle classi e che il sistema tribale rimanga con i leader tribali che
partecipano all’amministrazione, mostrache l’obiettivo non è la rimozione delle
relazioni feudali o dei rapporti capitalistici di produzione, ma è invece come
emerge dalle loro parole “ la costruzione di una nazione democratica. […] Su questo punto, è utile esaminare il
contratto sociale che definisce il confederalismo democratico che è alla base del sistema
politico in Rojava. […] In sintesi si afferma che la società di classe rimarrà e che ci
sarà un sistema politico federale, compatibile con il sistema globale e lo
Stato nazionale. […] Quando la Carta
Costituzionale viene analizzata nella sua globalità, l’obiettivo che emerge è
quello che non si va al di là di un sistema democratico borghese, che si chiama
confederalismo democratico. In sintesi, anche se le foto
delle due donne che portano il fucile (una scattata nella guerra civile
spagnola, l’altra fatta nella Rojava) che hanno fatto il giro dei social
media, corrispondono per somiglianza nel senso che si tratta di donne che
lottano per la loro libertà, è chiaro che le persone che combattono l’ISIS
nella Rojava non
lo fanno in questo momento per gli stessi obiettivi e ideali degli operai e dei
contadini poveri che hanno combattuto all’interno della CNT-FAI al fine di
rimuovere lo stato e la proprietà
privata del tutto. ….” ( Zafer Onat, Fantasie e realtà,
in anarkismo.net, 8 novembre 2014 )
Bibliografia: Primo
brano in David Graeber, Perché
il mondo sta ignorando la rivoluzione dei curdi in Siria ? in
Antropologia e pensiero libertario a cura di Andrea Staid
in A
Rivista anarchica n.
394, dicembre 2014 -gennaio 2015, pp. 17-18 e secondo brano in http://anarkismo.net/article/27578
DONNA ASSEGNATA ALLE FORZE DELLA DIFESA CIVILE
Per avere, infine, una maggiore comprensione della condizione delle donne curde , nel Rojava, prima e dopo l’ avvento del confederalismo democratico nel Rojava, mi sembra utile la lettura del libro Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne di Silvia Todeschini, in cui vengono raccolte dall’autrice, durante la sua permanenza in quei luoghi, testimonianze di vita di alcune donne curde, tra cui, per esempio, la giovane Niştiman , responsabile, tra l’altro, delle donne del centro per l’arte e la cultura. (cfr. brano)
Per avere, infine, una maggiore comprensione della condizione delle donne curde , nel Rojava, prima e dopo l’ avvento del confederalismo democratico nel Rojava, mi sembra utile la lettura del libro Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne di Silvia Todeschini, in cui vengono raccolte dall’autrice, durante la sua permanenza in quei luoghi, testimonianze di vita di alcune donne curde, tra cui, per esempio, la giovane Niştiman , responsabile, tra l’altro, delle donne del centro per l’arte e la cultura. (cfr. brano)
Brano da commentare : “ …
Ho cinque sorelle tutte più grandi di me. Avevamo un buon rapporto, ma adesso
che sono cresciute si sono sposate tutte. Ridevamo sempre assieme, era bello,
ma adesso che si sono sposate, tre sono andate in Europa, una in Turchia e una
sola è rimasta qui a Kobane. I miei fratelli, invece erano dio
mentalità conservatrice, non avevo un buon rapporto con loro. Non lasciavano
per esempio che noi ragazze uscissimo di casa. Secondo loro, noi donne dovevamo
tutto il tempo fare da mangiare, lavare i vestiti di tutti, non potevamo andare
al mercato da sole, dicevano che siamo donne e quindi non possiamo, che
dobbiamo stare in casa a fare i lavori, alcune mie sorelle non hanno neanche
potuto studiare. Le mie sorelle più grandi hanno fatto solo qualche giorno di
scuola, poi la famiglia ha detto loro che era una vergogna e non hanno potiuto
continuare. Un’ altra sorella ha finito il dodicesimo anno, voleva andare
all’università ma non ha potuto, sia perché era una vergogna ( “ayib”N)
che perché eravamo senza soldi. L’hanno data in sposa e basta. “ “ ayb è
una parola araba che significa “vergogna”. Viene
usata molto come arma psicologica contro la libertà delle donne, quando si dice
che una certa cosa è “ayb”, automaticamente la donna in questione
si ferma, smette di fare quello che sta facendo. E’ come un dogma, una parola
magica per controllare cosa è giusto o meno che le donne facciano. “ Se ci
vestiamo in maniera diversa dal solito o se ci innamoriamo, è “ayb”,
Per le donne rendono tutto “ayb”, una donna che va da sola al mercato
è “ayb “ perché i vestiti devono essere tutto il
tempo chiusi, è “ ayb “ mostrare i capelli o la pelle; è una
parola che il potere usa contro le donne. Bisogna che le donne non si
innamorino, che stiano a casa e che poi vadano a vivere con chi le chiede in
moglie. Tutto il resto è “ayb”. […] “ Perché si liberi la società,bisogna innanzitutto liberare le
donne. Se vuoi vivere in maniera libera, sono le donne che devi liberare. Nella società naturale si adorava la Dea
madre, e le prime a lavorare per costruire una società sono state le donne,
erano le prime ad aiutare chi aveva bisogno, perché si prendevano cura delle
bambine. Prima, le donne in Rojava erano chiuse, adesso piano piano
frequentano i perwerde , stiamo lavorando tutti assieme perché le donne ritornino libere.
Vogliamo che le donne si organizzino da sole, che vadano a lavorare senza
dipendere dagli uomini, che prendano il loro posto nelle unità di difesa,
vogliamo che le donne si autogestiscano sia dal punto di vista materiale che
spirituale. Se le donne sono oppresse la
società non può diventare libera. E’ per
questo che io sono responsabile delle donne qui: discuto con loro , perché
spesso sono le donne stesse ad essere conservatrici, perché non si facciano
schiacciare dall’idea di “ayb “,
per tutte queste ragioni diamo importanza all’autonomia. Siamo noi donne che
dobbiamo essere responsabili delle donne, non possono essere gli uomini a dirci
che cosa dobbiamo fare, prima gli uomini ci comandavano mentre adesso siamo noi
donne che ci prendiamo per mano e ci organizziamo automamente …” (Niştiman intervistata da Silvia Todeschini)
Bibliografia: in Silvia Todeschini, Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne. Alla Dea Madre
che vive in ciascuna di noi , 2016 pp. 114-115 e 121. L’autrice usa sovente il
termine “bambine” per indicare sia i bambini che le bambine, cfr. le sue
riflessioni sul plurale neutro al femminile a p. 2
SAKINE CANZ
All’interno del
movimento " confederale democratico" curdistano mi sembra che una figura emblematica sia stata SAKINE CANSIZ (nota anche con il nome di "HEVALA ( = compagna) SARA)" (1958-2013) Essa si
unì , assai giovane, al movimento
rivoluzionario curdo e divenne una cofondatrice del PKK (Partito dei lavoratori
del Kurdistan) . Nel 1978 fu arrestata
e rinchiusa nella prigione di Diyarbakir e sottoposta a pesanti
torture a cui reagì sempre con fierezza. Liberata nel 1991, Sakine Cansz si reinserì nella lotta
svolgendo importanti incarichi , sia sul
piano militare che politico, come membro del PKK e del Movimento per la Libertà
delle donne. Nel 2013 fu assassinata , presso la sede del Centro di
Informazione del Kurdistan, a Parigi in
rue Lafayette 147, insieme alle compagne FIDAN DOGAN e LEYLA SAYLEMEZ . Sui mandanti di questi
delitti non è stato ancora fatto piena luce .
Provvisoriamente, in attesa di leggere la autobiografia di Sakine Cansiz, di cui so, che, in
italiano sono usciti già due volumi, traggo , al fine di chiarire , almeno, in
parte, le idee, che in vita ispirarono il suo pensiero sulla condizione esistenziale della donna nella società tradizionale patriarcale curda un brano tratto da un’ ’intervista tenuta nel corso del
2010 . (cfr. brano)
Brano da commentare: “ Hevala Sara : “Quella che fin dall’inizio è stata una
componente delle analisi di Abdullah Ӧcalan è stato il parallelismo tra l’oppressione
e la colonizzazione del Kurdistan e la colonizzazione e l’oppressione delle
donne. Negli anni ‘70 è stata individuata un’analogia, che la società curda
veniva oppressa, schiavizzata, sfruttata e derubata della propria identità e
che la stessa condizione era doppiamente vera per le donne in Kurdistan.
Sotto il dominio patriarcale le donne vennero fatte tacere, non avevano una propria identità, né volontà di
esprimersi e forza di organizzarsi. Dall’analisi dell’oppressione nazionale e
dell’oppressione patriarcale e degli effetti della società e sulla donna
venivano alla luce molti paralleli. Ma
non si è mai trattato del fatto di vedere la donna come serva della nazione.
Abbiamo sempre definito la rivoluzione curda anche come una rivoluzione delle
donne e detto che la liberazione delle donne va di pari passo con la
liberazione della nazione. Ma non pensiamo che per questo ci sia un
automatismo. Ma che in effetti attraverso la rivoluzione delle donne viene
liberata anche la nazione. Sono due dinamiche che si completano a vicenda. Una
parte importante delle nostre analisi – anche delle analisi di Abdullah Ӧcalan sul
complesso famiglia, donne, uomini – è che è importante liberare la donna da una
posizione in cui viene vista come macchina per la riproduzione. Questo è anche
il motivo per cui rifiutiamo la forma
esistente di matrimonio e famiglia. Perché lì c’è l’idea di mantenere la tribù,
di dare continuità alla tribù e questo
fa parte del dominio maschile. Questo è un sistema di relazioni che noi
rifiutiamo. Per questo ci opponiamo alla famiglia classica. Questo è il
nocciolo della nostra critica alla famiglia ed alle strutture patriarcali, che
le donne siano intese come madri e fattrici. Nel nostro approccio filosofico
diciamo più che altro che se i bambini non hanno la possibilità di crescere in
una società libera e di parlare la propria lingua è meglio che non vengano
proprio al mondo. Invece di vivere senza libertà preferiamo non esistere.
Questo è il punto di vista filosofico dal quale partiamo. E’ un punto al quale
noi nel movimento delle donne reagiamo in modo molto allergico e proviamo anche
a fare più lavoro rispetto alla consapevolezza nella società. Perché all’uomo
curdo non è stato lasciato altro ambito di potere oltre alla famiglia. E poi
c’è l’idea che avere una famiglia grande significa avere molto potere. Ma tutto
questo avviene sulle spalle delle donne. Allora la sessualità non ha più niente
a che vedere con l’amore, molte hanno dovuto subirlo. Una gravidanza dopo l’altra
e chi ne soffre di più sono le donne. Allo stesso tempo però le donne intendono
i loro bambini come il loro solo bene e il loro unico compito. Per questo
troviamo importante che le donne abbiano una propria sicurezza in modo
indipendente dalla propria sfera di azione. La sessualità non deve essere usata
come strumento di dominio, ma anche in questo campo deve esserci
un’autodeterminazione delle donne .” ( A colloquio con Hevala Sara e le sue compagne sulle montagne di Kandi , testo tratto dal libro Resistenza e Utopie vissute , 2012 )
Sempre nella medesima intervista , “Hevala Sara” descrisse,
sempre partendo da un’ottica femminile,
anche il graduale passaggio da
una organizzazione prettamente marxista a quella confederale
democratica sottolineando come
quest’ultima riflettesse , in modo più fedele, l’antico matriarcato dell’epoca neolitica (cfr.brano)
Brano da commentare: “ Hevala Sara : “
L’inizio è stata l’organizzazione come unione delle donne YAJK. A quel tempo ,
nell’ambito dell’ideologia della liberazione delle donne, discutevamo sulla
possibilità di costruire un partito. L’ampiezza del lavoro e dell’organizzazione, sia in campo militare,
politico o organizzativo, aveva raggiunto un livello per cui definirlo con un
nome come “unione” sarebbe stato restrittivo e avrebbe dato l’idea di una
sezione femminile del PKK. Trovavamo giusto costruire su questo una nostra
identità politica in modo molto più forte. Anche se avevamo sempre critiche
rispetto al modello classico di partito, alla fine anche come movimento delle
donne abbiamo deciso di fondare un partito delle donne. […]
Sul nome all’epoca sono state fatte anche delle discussioni. La lotta
del PKK – ovvero dei lavoratori del Kurdistan – era quello che intendevamo come
nostra eredità e nostro punto di partenza.
Questo quindi si rispecchiava
anche nel nome –PJKK – partito delle lavoratrici del Kurdistan. Questo nome
esprimeva la comunanza tra la contraddizione di genere e quella di classe e la
questione nazionale. Nella fase successiva ci sono state ulteriori discussioni
ideologiche sul concetto di classe, su come lo si riempie o anche sulle
prospettiva universale della liberazione delle donne. Nella fase successiva ci
sono state ulteriori discussioni
ideologiche sul concetto di classe, su come lo si riempie o anche sulla
prospettiva universale della lotta di liberazione delle donne. Quindi nel terzo congresso si è deciso di cambiare il nome nel
contesto di questo dibattito. Anche se abbiamo rinunciato al termine
lavoratrici, questo non vuol dire che non continuiamo a ritenere necessaria la
lotta di classe. Ma pensiamo sia importante ampliare il concetto. Non potevamo
limitare la categoria donne al con concetto classico di lavoratrici. Era
importante invece mettere la contraddizione di genere al centro della lotta. In
questo contesto è avvenuto il cambiamento di nome in PJA- partito delle donne
libere. […] Un ulteriore punto di discussione era il concetto di “donna libera”
che è presente nel nome PJA. Su questo ci sono stati dibattiti, perché è un
nome molto ideale e nessuna di noi può dire di essere già una donna libera.
Si tratta invece del fatto di essere
determinate come donne e di lottare per la liberazione. Per questo c’è stata
una nuova riflessione e discussione e cosè nato il nome attuale del partito delle
donne PAJK- Partito della Libertà delle donne in Kurdistan. […] Il principio
dell’autonomia in realtà in una certa misura
è paragonabile a quella che
intendiamo come in una società che abbia le donne come riferimento. Le radici
di questo si trovano nell’organizzazione municipale neolitica della società,in
cui gli individui si potevano riconoscere e rappresentare secondo la propria
volontà. Naturalmente non si può fare uno per uno com’era all’epoca.Ma questo serve come spunto di ragionamento su come essere
costruita un’alternativa ai modelli
sociali dominanti. Le donne nella
loro storia hanno radici e riferimenti rispetto a come si possa configurare una
diversa organizzazione della società “ ( ( A colloquio con Hevala Sara e le sue compagne sulle montagne di Kandi , testo tratto dal libro Resistenza e Utopie vissute , 2012 )
Bibliografia: in Widerstand und gelebte Utopien a cura del collettivo di editrici presso CENI (Ufficio
delle donne curde per la pace) Mesopotmien Verlag, Neuss settembre 2012, (traduzione italiana) in http://www.retekurdistandiustan.it/resistenza-e-utopie-vissute/
BAMBINA CHE IMPARA A SCRIVERE IN CURDO O ARABO O SIRIACO, ECC, |
Importante è, in una società ispirata ai principi “confederali-democratici “, una istruzione che
voglia proporre , sin dall’ infanzia,
valori e metodi educativi alternativi a quelli dominanti, fondati su basi gerarchiche e autoritarie. L' intervista
di Silvia Todeschini a Raperin, giovane insegnante, con “ esperienza diretta nelle prime classi” pone in chiara luce le differenze tra la scuola
statale pre-rivoluzionaria e quella che stanno attualmente cercando di costruire. (cfr.
brano)
Brano da commentare : “ Ho studiato con il regime ed era
tutto diverso. A scuola, da bambine, nel cuore avevamo sempre paura. Io avevo
paura della maestra e del direttore, ci picchiavano. Non veniva mai chiesto
qual’era il nostro pensiero, la nostra opinione, se avessimo domande o che cosa volessimo sapere . Se facevamo una
domanda che non appariva nei libri di testo, ci dicevano che non potevamo , che
non avevamo diritto a una risposta perché non faceva parte del libro. Nelle scuole statali tutte
le materie erano legate agli arabi, al sistema Abbas, anche se vivevamo in
zona a maggioranza curda non studiavamo la nostra storia, anche attraverso la
scuola il sistema cercava di assimilarci. Noi bambine non eravamo a nostro agio
a scuola. Il sistema funzionava così per insegnare alle bambine a non pensare,
per fare in modo che non costruissero un loro pensiero, in particolare per noi
curde: a scuola non imparavamo. Era proibito parlare curdo, la nostra lingua.
Ho molte cicatrici nel cuore perché il sistema scolastico ci rendeva tristi ed
arrabbiate. Oggi è diverso, lo puoi vedere da te che le bambine sono contente e
rilassate. […] Il sistema scolastico , in questo
momento, come è strutturato? “ Per i primi tre anni le bambine seguono tutte le
lezioni nella loro lingua materna: le bambine curde in lingua curda, le bambine
arabe in lingua araba, e le bimbe siriache in siriaco. Al quarto anno, poi,
inseriamo gradualmente qualche ora di lingua straniera, l’arabo per le curde,
il curdo per le arabe, e l’inglese” [… ]
Chiedo a Rapelin di
dire ancora qualche parola sulle scuole elementari, visto che ha avuto
esperienza diretta come insegnante nelle prime classi. “ Innanzitutto secondo
il sistema che vogliamo instaurare, non vogliamo fare differenza tra
studentesse intelligenti o meno, tra quelle che hanno successo e quelli che
hanno più difficoltà. Siamo passati tutti nelle scuole dello Stato e conosciamo
bene i metodi che usa: quando una studentessa fa fatica viene trattata come una
diversa, le si dice “ te non sei brava, te non sei abbastanza intelligente” e
in questo modo lei si deprime e si annienta la sua motivazione. Ora invece, se
il livello di una studentessa non è sufficientemente alto, abbiamo molti metodi
per venirle incontro: la accompagniamo in modo speciale, le parliamo, giochiamo
con lei, in alcuni casi se non viene raggiunto l’obiettivo andiamo a visitarla
a casa, perché certe volte le bambine vivono problemi in famiglia che
impediscono loro di concentrarsi sull’ apprendimento. […] Il rapporto tra insegnante e studentessa ,
poi, è completamente , diverso da quello della scuola statale: prima le
insegnanti stavano in alto e le studentesse in basso; oggi la base del rapporto
insegnanti e studentesse è l’ amicizia ,
L’insegnante parla con le alunne, fa in modo che stiano a proprio agio, che
siano contente di studiare, in modo da dare loro motivazioni. ….” ( Intervista
di Silvia Todeschini alla giovane insegnante e attivista ,Raperin)
Bibliografia : in Silvia Todeschini, Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne. Alla Dea Madre
che vive in ciascuna di noi , 2016 pp. 144-
145 - 148
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