Brani da commentare: 1) “ … Giolitti non era meno duro di Mussolini quando colpiva. La differenza stava per questo aspetto, nel fatto che il primo non usava il terrore sistematicamente, mentre il secondo si manteneva al potere solo adoperando quest’arma ed aggiungendovi per sopramercato l’arma del ricatto. (cfr. primo brano); 2) “ L’equazione tra il confino e la villeggiatura fu coniata da Arturo Bocchini; poi nel 1951 ripresa da Guido Leto, ,già Capo dell’ OVRA; nel 2003 rilanciata da Silvio Berlusconi, il quale dichiarava l’indulgenza del Duce verso gli oppositori ai quali, più che una punizione offriva una vacanza. Affermazione mossa dall’intento di sminuire il valore dell’antifascismo e di conferire agli eredi del fascismo la rispettabilità necessaria ad una forza di governo….” (Patrizia Gabrielli, Tempio di virilità. L’antifascismo, il genere, la storia…); 3)“Il confino di polizia venne istituito con l’entrata in vigore del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TUPLS), il 6 novembre 1926, documento proposto dal Ministro dell’Interno, Luigi Federzoni. Esso consisteva nel condannare il sovversivo a vivere in un luogo diverso (e il più possibile lontano) da quello di residenza, in modo da tagliare i legami che esso aveva con organizzazioni considerate sovversive. A seconda delle condizioni di salute e della pericolosità, in termini politici, del condannato, il confino poteva svolgersi o in piccoli comuni di terraferma (per i cagionevoli di salute e i meno pericolosi), o nelle isole di Lipari, Lampedusa, Pantelleria, Favignana, Ustica, Ventotene, Ponza e Tremiti, dove furono organizzate delle colonie. […] Appena giunto nella colonia di confino, dopo un lungo e pesante viaggio, la prima procedura cui un cittadino, ormai confinato, veniva sottoposto era la consegna dei documenti civili in cambio della “carta di permanenza”: un libretto (ironicamente di colore rosso) da portare sempre con sé, in cui erano annotate le generalità della persona e le norme da seguire durante la permanenza in colonia. Molti confinati lessero la procedura come la negazione, da parte del regime, del proprio status di cittadini e, per tanto, come la negazione delle proprie libertà civili […] nell’art. 185 si parla solo della consegna della carta di permanenza al confinato, ma non dei suoi documenti di identità alle autorità fasciste. Ritirare il documento di identità ha il chiaro intento di abolire, o, quanto meno, sospendere, i diritti e i doveri civili, per questo l’omissione di tale prassi in documenti ufficiali risulta grave. Sicuramente questa mancanza non è casuale, ma probabilmente voleva ricordare agli antifascisti che l’autorità del regime poteva andare oltre la legge scritta. Le isole su cui sorgevano le colonie di confino sono oggi bellissime mete di turismo e questo elemento ha contribuito a dare l’immagine errata del provvedimento del confino come un piacevole soggiorno. Nel 2003 scoppiò una forte polemica, poiché nel corso di un’intervista al The Spectator, quotidiano inglese, fu lo stesso Silvio Berlusconi, all’epoca Presidente del Consiglio, a definirlo come una vacanza pagata dallo Stato. Evitando commenti e polemiche faziose, risulta evidente l’ignoranza circa la tematica del confino, che fu uno strumento liberticida e, in quanto tale, da condannare, nonché motivo di sofferenza per chi lo subì. [... ] Per i diciassette anni in cui il confino rimase in vigore, furono costanti le vessazioni di ogni tipo messe in atto dal personale di vigilanza, sia fisiche che morali: ogni pretesto era valido per malmenare i confinati, ad esempio perché indossavano qualcosa di rosso; oppure l’ufficio censura non consegnava la posta, contenente notizie private, ai confinati. Capitò, per citare un solo caso, che un ragazzo seppe delle gravi condizioni di salute del padre quando questi era già morto, senza aver avuto la possibilità di salutarlo. ...“ ( Una via di mezzo tra esilio e prigionia: il confino…)
Bibliografia: Primo brano in Enzo Misefari, Bruno biografia di un fratello, Zero in condotta. 1989 pp. 124-125. Secondo brano in Patrizia Gabrielli, Tempio di virilità, L'antifascismo, il genere e la storia, Franco Angeli, 2008 pp. 89-90; Terzo brano in Una via di mezzo tra esilio e prigionia: il confino, l’arma di repressione silenziosa del regime fascista, ottobre 2018 in https://parentesistoriche.altervista.org/confino-fascismo/#google_vignette
Brano da commentare: “… Arrestato nel ’30 , fu inviato al confino, ove rimase ininterrottamente – salvo una breve parentesi trascorsa a Siracusa sotto stretto controllo poliziesco- fino al’43. ebbe modo di “girare” varie isole di confino (Ponza, Tremiti, Ventottene, ecc.) partecipando ai più significativi episodi di lotta che, pur nell’asprezza delle condizioni di sopravvivenza del confino, illuminarono quegli anni: come la lotta contro l’ imposizione dell’obbligo per i confinati di salutare romanamente, che costò ad un centinaio di confinati ( di varie tendenze ideologiche) l’arresto, il “processo” di Napoli e la conseguente condanna ad un periodo di carcere- terminato il quale, furono rispediti al confino. Pochissimi antifascisti trascorsero un periodo così lungo al confino in quei tredici anni (quando entrò ne aveva 24 , per uscirne a 37) Failla ebbe modo tra l’altro di conoscere quasi tutte le migliaia di persone, che si ”alternarono” al confino compresa la futura classe dirigente del post-fascismo. Nelle accese discussioni e anche nelle feroci contrapposizioni che caratterizzarono i confinati (soprattutto in conseguenza del programmatico settarismo dei comunisti allora stalinisti) rese ancora più incandescenti dopo i fatti di Spagna, Failla rappresentò un punto di riferimento preciso per la numerosa (e composita) comunità anarchica al confino (seconda per numero solo ai comunisti.) .” ( “ Una vita per la libertà in A Rivista Anarchica , marzo 1986)
Bibliografia: Paolo Finzi (a cura di), Insuscettibile di
ravvedimento. L’anarchico Alfonso Failla (1906-1986). Scritti e Testimonianze , La Fiaccola, 1993, p. 326
Nel 1931 Failla fu condannato a 5 anni di confino da passare nell’isola di Ponza, dove conobbe l'anarchico Bruno Misefari, con cui intraprese clandestinamente, finché fu possibile, tutta una serie di attività politiche e culturali. (cfr. post BRUNO MISEFARI...) ( cfr. primo brano) .Nel 1933 fu condannato , nel cosiddetto processone di Napoli, insieme a molti altri confinati, a 5 mesi nel carcere di Napoli per il rifiuto di salutare romanamente . (cfr. secondo brano da commentare)
Espiata la pena fu ritradotto nell’isola
di Ponza, ma nel 1935 fu nuovamente processato “ per avere partecipato ad una protesta collettiva” e condannato a 14
mesi di reclusione nel carcere di Poggio Reale.
Nel 1937 fu trasferito nell’isola di Tremiti, dove continuò a rifiutarsi
di effettuare il saluto romano, subendo punizioni restrittive e infine la condanna
a un mese di prigione nel carcere di Napoli. Nell’ ottobre del 1937 fu
trasferito nell’isola di Ventotene e poi nuovamente riconfinato a Tremiti sino
alla sua provvisoria liberazione nell’agosto
del 1939. Nel giugno 1940, schedato come “anarchico pericolosissimo, fu assegnato “per tutto il periodo della
guerra al confino nell’isola di Ventotene. Il governo
Badoglio , instauratosi il 25 luglio del 1943, liberò dal confine socialisti e
comunisti , ma non gli anarchici. Paolo Pasi nel suo suggestivo libro, Antifascisti senza Patria. Immagina lo
stato d’animo di Alfonso Failla di fronte a questa decisione liberticida,
assunta dal nuovo governo dopo la caduta
di Mussolini. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare: “ Oggi [nota mia: 30 luglio 1943] Failla compie 37 anni. […] Solo due giorni fa Mussolini è stato trasferito a Ponza, ma anche adesso che il capo del fascismo è l’immagine appannata di un uomo sconfitto, Failla non riesce a staccarsi di dosso il peso di certi ricordi che lo riportano a 10 anni prima, a Ponza appunto… Insieme ad altri centocinquanta anarchici aveva acceso la rivolta del saluto romano, il rifiuto collettivo di sottoporsi a quello stupido rituale di obbedienza che altri avevano accettato per quieto vivere o sedicente realismo politico. Lui e gli altri anarchici ne avevano ricavato il cosiddetto “processone” celebrato a Napoli. […] Giudicato per direttissima, fu condannato a cinque mesi di carcere, poi ridotti a quattro, e una volta scontata la pena dovette tornare a Ponza. Tredici anni di vita non sono pochi, e oggi Failla sente ancora dentro di sé il canto vibrante di quel giorno, l’inno anarchico delle barricate che resta attuale, perché in terraferma si sta combattendo, e la cruda attesa a Ventottene nonostante la caduta del fascismo gli appare come un’altra, subdola condanna da chi è succeduto a Mussolini. Il governo Badoglio gioca sull’attesa, considera anarchici e slavi elementi pericolosi, antifascisti senza patria. […] Non è un compleanno di resa, dunque. Failla è un anarchico miitante che non ha mai piegato la testa, se non per tagliare i capelli nella sua bottega di barbiere. [… ] Anche lui ha urgenza di raggiungere la sua famiglia, di toccare il continente per riprendere contatto con un paese allo stremo. La lunga prigionia ha però fortificato la sua capacità di resistenza. …” ( Paolo Pasi, Antifascisti senza patria)
Bibliografia:
Paolo Pasi, Antifascisti senza patria,
Elèuthera, 2018 pp.81-83, Cfr. anche il libro a cura di Paolo Finzi, Insuscettibile di
ravvedimento. L’anarchico Alfonso Failla (1906-1986). Scritti e Testimonianze , La Fiaccola, 1993,
pp. 13-55 dove sono , tra l'altro, raccolte tutte le "Carte di
polizia" che ben testimoniano l' incessante accanimento persecutorio attuato nei
suoi confronti da parte del regime fascista, che lo ritenne , a ragione,
" insuscettibile di ravvedimento"..
Finalmente arrivò l’ordine di trasferimento, ma non è la libertà sperata, ma la deportazione nel più duro campo di concentramento di Renicci d’ Angari. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare: “ I compagni di Verona
rispondono ai compagni di Dergano , che il loro gruppo, pur ridotto di numero,
a causa della guerra, esiste tuttora e i pochi rimasti, uniti fraternamente, si
adoperano come è loro possibile per la propaganda ( “ Il libertario, 20 aprile
1916. Nell' aprile del 1918 i componenti
del Gruppo libertario veronese subiscono
una serie di perquisizioni che portano al sequestro di opuscoli di propaganda,
cartucce e caricatori). …
Bibliografia: Andrea Dilemmi, Il naso rotto di
Paolo Veronese. Anarchismo e conflittualità sociale a Verona (1867-1928),
BFS 2006 pp. 150-151 e nota n. 8
Dal 1922 e
dopo l’avvento al potere del fascismo
Giovanni Domaschi passò tutto il resto della sua vita accumulando
innumerevoli anni di prigione e di confino. Famoso “protagonista
delle fughe più incredibili” evase più volte dai luoghi di
detenzione dove era rinchiuso, ma fu sempre ripreso , a causa soprattutto delle alte somme di denaro
promesse dal regime fascista a chi avesse contribuito alla sua cattura. Nel
memoriale che Giovanni Domaschi inviò al
Corriere della sera dal Campo di concentramento
di Renicci d’ Angari egli stesso ricostruì le sue tormentose vicende
giudiziarie e penitenziarie. (cfr. brano
da commentare)
Brano da commentare: “ Ho passato il primo processo per antifascismo alle assisi di Verona nel maggio 1922 per aver fatto opposizione con parecchi altri compagni ad una squadraccia fascista che voleva mettere a soqquadro il rione popolare di S. Stefano [Verona] . Fui condannato a 15 mesi di detenzione ed a un anno di vigilanza. Questo fu l’inizio di un periodo che poi per vent’anni mi doveva tenere lontano dalla mia famiglia, dai miei due cari bambini Anita e Armando, per essere internato nelle carceri fasciste e costretto ad occupare le più nere e umide celle d’Italia. Uscito dalle carceri di Verona dopo di avere scontato la pena inflittami dalla Corte d’ Assisi, ritornai alla mia opera antifascista […] Il 13 novembre 1926 un gruppo di poliziotti circondarono la mia casa e riuscirono ad arrestarmi nonostante la mia resistenza. Il 19 dello stesso mese, alle carceri di Verona dove fui tradotto mi venne comunicata la sentenza della commissione provinciale con la quale mi si condannava a 5 anni di confino. Dopo cinque giorni partii con altri per l’isola di Favignana sottoposto a tutte le privazioni. Nell’ aprile del 1927 fui trasferito nell’isola di Lipari dove vi rimasi sino al 1928 poiché il giorno 12 di quel mese con un telegramma della Questura di Verona mi si metteva a disposizione del Tribunale Speciale sotto l’accusa “di complotto contro la sicurezza dello Stato”. Dopo sei mesi di detenzione nelle carceri di Lipari e precisamente la notte del 21 luglio , riuscii a fuggire con altri vestito da prete, ma fui ripreso dopo due giorni per la spiata di un contadino […] lusingato dalle cinquemila lire messe a disposizione dalle autorità […] Per questa evasione […] fui condannato a quattro mesi di detenzione dopo la quale fui trasferito alle carceri “regina Coeli” di Roma per rispondere davanti al Tribunale Speciale la cui sentenza mi condannava a 15 anni di reclusione. Un mese più tardi la casa penale di Fossombrone apriva le sue porte per farmi passare il primo periodo di segregazione, ma nel febbraio del 1929 mi si conduceva in traduzione straordinaria di nuovo davanti al tribunale di Messina per il ricorso in appello inoltrato contro la sentenza di quel tribunale; la pena venne riconfermata. Nelle carceri di Messina pensai di organizzare una nuova fuga, tagliando ferri e scalando una doppia cinta, vi riuscii la notte del 16 febbraio ma anche questa volta fui tradito e arrestato di nuovo dopo tre giorni di rocambolesca latitanza. […] Verso la fine del 1929 con una numerosa scorta di forza pubblica ritornai alla casa penale di Fossombrone, per proseguire la segregazione cellulare, dopo la quale, e precisamente nella ricorrenza del Primo Maggio 1932, pensai con altri compagni di fare una manifestazione antifascista che riuscì molto bene. […] Un mese dopo fummo tutti trasferiti io fui tradotto alla casa penale di Piacenza ed un anno dopo,, cioè nel novembre del 1933, tentai col prof. Rossi una nuova evasione anche da quelle carceri, tentativo che venne scoperto quando tutto si stava mettendo in esecuzione per la spiata di un detenuto comune […] Scortato bene fui tradotto di nuovo al 4° braccio delle carceri “Regina Coeli” di Roma sotto una severa vigilanza. In seguito ai ripetuti decreti di condono nel febbraio del 1936 venni scarcerato e tradotto quale confinato politico nell’isola di Ponza senza neppure farmi vedere la famiglia, poi in quella di Ventotene ed in fine nel campo di concentramento di Renicci d’Angari dove sono tutt’ora. Complessivamente ho scontato undici anni di reclusione e nove di confino . …” ( Giovanni Domaschi, Memoriale al “Corriere della sera 8-9- 1943)
Bibliografia: Giovanni Domaschi, Le mie prigioni
e le mie evasioni. Memorie di un anarchico veronese dal carcere e dal confino
fascista, a cura di Andrea Dilemmi, , Istituto Veronese per la storia della
Resistenza e dell’ età contemporanea, 2007 pp. 358-359
Sempre nella lettera al Corriere della sera, Giovanni Domaschi denunciò l’ingiustizia che stavano subendo gli anarchici antifascisti. (brano da commentare).
Fuggito da Renicci tornò a Verona per partecipare alla Resistenza,
come rappresentante degli anarchici nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) cittadino Nel luglio 1944 fu arrestato, durante una retata delle brigate nere, insieme ad altri membri
del CLN e dopo avere subito pesanti
torture, fu consegnato alle SS e deportato in Germania. Morì nel lager
di Dachau nel febbraio 1945.
MARIA CIARRAVANO E ICILIO |
MARIA CIARRAVANO (1904-1965) nata a Salcito presso Campobasso nel Molise.
Di mestiere sarta, era la giovane moglie di Sergio Di Modugno che, nel 1927, perseguitato da fascisti e
poliziotti espatriò in Francia. Desiderando con tutte le sue forze il
ricongiungimento con la sua famiglia, Sergio di Modugno aveva richiesto più
volte al vice console fascista a Parigi, Carlo Nardini, l’autorizzazione
per avere il passaporto della moglie.
Con vari pretesti , essa gli veniva però sempre rifiutata sino a quando , esasperato,
sparò al Nardini e lo uccise. Come
risposta il regime fascista mandò la giovane moglie e il suo figlioletto di tre
anni, Icilio, al confino di Lipari
dichiarandola istigatrice del delitto. (brano da commentare)
Brano da commentare: “ Non vi è dubbio che essa,
anziché mitigare le idee del proprio marito, lo abbia invece eccitato, sia pure
indirettamente, creando in lui quello stato d’animo che lo portò al delitto.
Dopo di tale delitto, essa mantenne e mantiene viva la fede comunista nei
propri famigliari, specie nella sorella Ester, moglie dell’altro pericoloso
sovversivo Di Modugno Antonio. Avvicina
famiglie di internati politici per portare loro coraggio e folli speranze.” (
relazione del prefetto di Campobasso su Maria Ciavarrano)
Bibliografia: Andrea Dilemmi Maria Ciarravano in Dizionario biografico degli anarchici italiani, volume primo A-G , BFS, 2003 p. 397. Cfr. anche Barbara Bertolini e Anna Maria Cenname, Maria Ciavarrano in Biografie di donne protagoniste del loro tempo, a cura di Barbara Bertolini e Rita Frattolillo, in https://donneprotagoniste.blogspot.com/2015/11/maria-ciarravano.html e Massimiliano Marzillo, Antifascisti. Maria Ciavarrano, Sergio Di Modugno e altre storie, Gli italiani nella morsa dei totalitarismi, Cosmo Iannone editore , 2018 pp. 54-55.
Arrivata nell’isola suscitò la simpatia e la compassione dei confinati e in
particolare di Giovanni Domaschi. (cfr.
brano da commentare)
Brano da commentare: ” … nel settembre del 1927, mi
vidi giungere pure una giovane donna con un bambino, il cui stato mi fece
veramente compassione: a nome dei compagni Anarchici mi occupai di trovarle una
abitazione conforme ai suoi bisogni e dopo qualche giorno raggiunsi lo scopo.
In quel frattempo fui colpito dalla “liparite” che costringeva a letto per
alcuni giorni, noi la denominavamo così perché si era diffusa solo a Lipari, e
la nuova compagna confinata, che non era altro che la Maria Carravano, mi
assistette con vero affetto fraterno. […]] Divenimmo come due fratelli che si
sorreggono sulle proprie pene e gioiscono insieme nei piaceri dell’uno e
dell’altro, ma quel genere di amore non durò e non poteva durare molto, poiché
eravamo giovani entrambi e tutti e due avevamo altri bisogni, a poco a poco
maturavano così in noi altri sentimenti. Che cosa impediva a noi di divenire
compagni magari per tutta la vita? Avevamo forse bisogno del consenso del
Parroco oppure del nulla osta del Sindaco?
Che valgono tutti questi padri eterni di fronte all’amore di due cuori i quali
si sentono attratti l’uno verso l’altro? Eravamo giunti a un momento che non si
poteva vivere insieme senza che l’alito dell’uno non vibrasse nel cuore dell’
altro. ….” ( Giovanni Domaschi, Le mie prigioni…) p.233 e nota n. 56
Bibliografia:
Giovanni Domaschi, Le mie prigioni e le mie evasioni. Memorie di un
anarchico veronese dal carcere e dal confino fascista, a cura di Andrea
Dilemmi, , Istituto Veronese per la storia della Resistenza e dell’ età
contemporanea, 2007 p. 233 e nota n. 56 in cui si dice che la data è errata e
che Maria Ciavarrano , in realtà, arrivò a Lipari il 19 novembre. Cfr. Massimiliano
Marzillo, Antifascisti. Maria Ciavarrano, Sergio Di Modugno e altre storie,
Gli italiani nella morsa dei totalitarismi, Cosmo Iannone editore , 2018
pp. 61, dove, tra l’altro, la data dell’ arrivo di Maria Ciarravano e il
figlioletto Icilio è fissata all’ ottobre 1927.
Verso la fine di dicembre Maria Ciarravano protestò energicamente, senza avvisare Domaschi e gli altri confinati per non rischiare di aggravare la loro già delicata situazione, perché non era stata pagata , da alcuni giorni, la “mazzetta” quotidiana, unica fonte di sostentamento. Immediatamente arrestata “per oltraggio a pubblico ufficiale” fu alcuni giorni dopo condannata a 15 giorni di prigione.” Maria era ancora in prigione, quando Domaschi ottenne una breve licenza per andare a Verona a trovare la madre gravemente ammalata. Giunse a Verona troppo tardi : la mamma era già stata sepolta. Quando tornò a Lipari, Maria era uscita dal carcere, ma, la gioia di ritrovarsi durò poco, in quanto, dopo pochi giorni, fu denunciato con l’accusa pretestuosa di avere , durante, il viaggio a Verona, “complottato contro la sicurezza dello Stato”. Era stato un suo compagno di Verona, con cui era da tempo in corrispondenza, che, arrestato, fece, oltre a quello altri compagni, anche il suo nome. Rinchiuso in carcere, Maria Ciarravano andava spesso a trovarlo, ufficialmente per portargli la biancheria, in realtà per scambiarsi informazioni per mezzo di bigliettini e in più fornire “limette” e chiavi gregge” che potessero servire all’evasione che intanto Domaschi stava preparando. Per non insospettire troppo le guardie carcerarie, con sue visite troppo frequenti, Maria Ciarravano trovò anche il modo di mandare, per qualche ora, ogni giorno il figlioletto, Icilio, a giocare nella cella di Domaschi con nascosti su di sé o nei suoi giocattoli bigliettini e tutto ciò che poteva servire per l’evasione. Inoltre Maria cucì un abito femminile da far indossare a uno dei prescelti compagni d’evasione e agli altri degli abiti adatti per fuori dal carcere. Domaschi decise invece di vestirsi, per l’occasione, con un abito da prete, che già possedeva. Infine Maria stessa, dopo essersi assicurata di poter lasciare il piccolo Icilio nelle mani sicure della sorella, Ester, trasferitasi, a Lipari, come moglie del confinato Antonio Di Modugno, fratello di Sergio, decise di partecipare anche lei all’evasione, camuffandosi da uomo. L’evasione il 20 luglio 1928 riuscì, , ma poi, per un motivo o per altro, tutti furono ripresi , fuorché Maria , che riuscì a rientrare in casa e a rispondere all’appello del giorno dopo. Più tardi però, pur se non fu mai accusata di evasione, gli investigatori trovarono prove della sua complicità nei preparativi di quell’evasione e fu trasferita all’isola di Ponza. Al processo, tenuto nella città di Messina, Giovanni Domaschi e Maria Ciarravano ebbero l’occasione di rivedersi. Lei fu condannata a tre mesi e destinata nuovamente al confino nell’isola di Ponza. Giovani Damasco fu, invece, condannato per l’evasione a 4 mesi e, contemporaneamente, arrivò l’ordine che fosse trasferito a Roma, nel carcere di Regina Coeli, in attesa di una sentenza del Tribunale Speciale per l’accusa di “complotto contro la sicurezza dello Stato”. Ad unirli, per l’ultima volta, fu il viaggio da Messina a Napoli . Poi vi fu la definitiva separazione e particolarmente commovente fu il distacco tra Domaschi e il piccolo Ilicio che nel frattempo, si era tanto affezionato all’anarchico veronese. Vi è comunque da dire che a Lipari, non tutti , anche tra gli anarchici o pseudo-tali avevano approvato la loro “libera unione”. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare “ Per opera di alcuni confinati che si dicevano Anarchici, ma che altro non potevano essere che degli agenti provocatori al soldo della direzione, nacque un dissidio a proposito dei miei amori con la Ciarravano oramai divenuti evidenti: senza il consenso di questi signori amare la Ciarravano era un peccato mortale[…] Solo con alcune mie lettere , con le quali bollavo a sangue i responsabili e con l’opera dei compagni, Galleani, Binazzi e vari altri riuscimmo a sfaldare questo putridume che agiva nelle nostre file in nome dell’Anarchia. Dal Galleani e da vari altri ebbi anche alcune lettere di solidarietà in proposito che mi fecero molto piacere. Del resto non era da meravigliarcene se al confino avvenivano di queste cose. […] Per opera di questi agenti provocatori si maturarono complotti, e si crearono pretesti per mandare in carcere i migliori compagni e colpirli fisicamente. Ecco come fu , e mentre scrivo, come è ancora il confino: pieno di buonissimi compagni che lasciano nel cuore i migliori ricordi, ma anche di sedicenti tali e di spioni. La Maria Ciarravano che aveva la ingenuità di non comprendere il gioco della direzione, fu indignatissima contro tutti, non facendo distinzione tra Anarchici e coloro che non lo erano e non potevano mai ad esserlo”…. ( Giovanni Domaschi, Le mie prigioni…,)
Bibliografia: Giovanni Domaschi, Le mie prigioni e le mie evasioni. Memorie di un anarchico veronese dal carcere e dal confino fascista, a cura di Andrea Dilemmi, , Istituto Veronese per la storia della Resistenza e dell’ età contemporanea, 2007 pp. 238-239. Mi chiedo , inoltre, ma è solo un’ipotesi personale, dettata dalla mia immaginazione, se , a quel clima di “ riprovazione morale della loro unione” possa collegarsi l’arresto di Maria Ciavarrano il 13 luglio 1928 “ per contravvenzione al confino e tentate lezioni ai danni di Mirania Milo, moglie del confinato anarchico romano Archimede Pucci “ e rilasciata il 17 luglio, pochi giorni prima del tentativo di evasione dal confino di Giovanni e Maria. ( cfr. Giovanni Domaschi, Le mie prigioni … p. 286 e nota n.51)
A Ponza Maria Ciarravano conobbe Ludovico Zamboni, fratello di Anteo
Zamboni, il giovanissimo, presunto, attentatore, nel 1926, di Mussolini, e con lui strinse un rapporto, con alti e
bassi, che durò sino alla
morte di lei nel 1965. Nel 1932 ebbero un figlio chiamato Anteo, come lo zio
morto, e Maria dovette, sebbene
addoloratissima, rinunciare a tenere con
sé Icilio, che ormai aveva compiuto otto anni, a causa dell’ostinata ostilità di Ludovico e
della famiglia Zamboni nei confronti del bambino. Icilio, insofferente e
ribelle, passò da un collegio all’altro
sino a che scappato, a 12 anni, dall’
Istituto degli
artigianelli studio e lavoro” di Faenza fu accolto, per
quanto ho capito, dalla zia Ester Ciarravano, nonostante le grandi difficoltà economiche di quella
famiglia ( cinque figli e il marito , condannato a 16 anni, in carcere).
Maria non vedrà mai più né Domaschi, né il primo marito, Sergio Di Modugno, che, trasferitosi in Russia nel 1929, fu accusato nel 1937, su indicazione di dirigenti stalinisti di attività anti sovietiche e venne deportato in Siberia, dove morì. ( cfr. sulle tragiche vicissitudini vissute da Sergio Di Modugno in Unione Sovietica, cfr. Massimiliano Marzillo, Antifascisti…, op. cit. p. 82 e pp. 87-88).
Va detto, comunque, che la
corrispondenza epistolare fra Sergio Di Modugno e Maria Ciarravano persistette,
seppure con difficoltà a lungo e pur avendo come oggetto principale le comuni
preoccupazioni per l’avvenire di Icilio,
rivelano anche l’esistenza di un rapporto affettivo che ancora
fortemente li legava. Ad una struggente canzone
intitolata Il profugo che le inviò Sergio di Modugno il 25 maggio
1936. Maria rispose con eguale rimpianto di un amore che non aveva potuto, per
le tristi circostanze della vita, essere pienamente vissuto (cfr. brano da
commentare)
Brano da commentare: “ La canzone è splendida, l’hai
scritta col cuore […] Spero che la mia amicizia
sincera porti un po’ di serenità al tuo povero cuore che tanto soffre. La
canzone l’ho imparata tutta […] Dico delle volte fra me, Se Sergio fosse qui […]
gli canterei tante canzoni […] ma siamo
lontani e prima che si arrivi ci vuole […] tempo.” ( lettera di Maria
Ciarrevano a Sergio Di Modugno il 13 luglio 1936) Bibliografia : Massimiliano Marzillo,
Antifascisti. Maria Ciarravano, Sergio Di Modugno e altre storie, Gli italiani
nella morsa dei totalitarismi, Cosmo Iannone editore , 2018 p. 87. I tagli
di questa lettera stavolta non dipendono da me. Cfr.
anche p. 86 n. 174, dove vi è il testo
della canzone di Sergio Di Modugno, che qui non ho potuto riprodurre per
ragioni di spazio.
NINO MALARA |
Nino Malara (1898-1975), anarchico e ferroviere, più volte licenziato per la sua intensa militanza politica. Nel 1914, ancora studente di un Istituto Industriale di Reggio Calabria venne a contatto con una scuola, dove insegnava l'allora giovane studente universitario anarchico, della facolta d'ingegneria, Bruno Misefari, con cui Malara intrattenne un fraterno rapporto d'amicizia e di condivisione di ideali politici libertari (cfr. post BRUNO MISEFARI). In quella scuola, oltre a tenere lezioni gratuite di recupero , venivano tenute , clandestinamente, riunioni in cui si discutevano le possibili tattiche da adottarsi contro la sempre più crescente “voglia di guerra” degli interventisti. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare: “ Dopo le regolari lezioni che
frequentavo all’Istituto industriale di Reggio Calabria, mi incamminavo a
raggiungere un locale a pianterreno adibito a lezioni gratuite. Col tempo seppi poi che il neo maestro era uno
studente universitario, iscritto alla facoltà di ingegneria.[…] La scuola e la
lavagna, il pianterreno e le lezioni gratuite (che avevano la loro importanza)
servivano, seppi, poi soprattutto a d eludere le forze di polizia che come
sempre vanno alla ricerca delle streghe. Quel pianterreno era anche il punto di
incontro dove un nutrito gruppo di anarchici di Reggio Calabria e dei paesi
vicini si ritrovava per discutere come affrontare i molteplici problemi e in
specie quello dei tragici avvenimenti della guerra che oltre tutto minacciava
la stessa esistenza della popolazione calabrese. Il “maestro del pianterreno”
era l’anarchico Bruno Misefari, di lui voglio solo dare qualche impressione e
ricordo che possa mettere in luce alcuni aspetti della sua persona. Egli
esercitava con il suo talento un ascendente profondo verso la gente e in questo
era principalmente il suo essere. I suoi scritti libertari, la sua poesia, il
prestigio che gli veniva dalle sue ricerche minerarie per raggiungere nuovi
progressi scientifici, l’azione continua di agitazione politica, lo impegnavano
in una intensa attività giorno per giorno; la volontà di superare qualsiasi
ostacolo, gli dettero tale impulso. Egli sembrò, e in gran parte lo fu, l’uomo
del pensiero e dell’azione. Per anni siamo stati legati dalla più fraterna
amicizia . …” ( Nino Malara, Antifascismo anarchico …)
Bibliografia: Nino Malara, Antifascismo anarchico 1919-1945. A
quelli che rimasero, Sapere 2000, 1995, pp. 42-43
Nel 1917, con altri anarchici e ferrovieri, si mobilitò per
impedire l’invio, in treni, di aiuti
militari, per la repressione dei moti rivoluzionari in Russia. (cfr. brano da
coomentare)
Brano da commentare: “
Nel piazzale merci della stazione ferroviaria di Reggio Calabria i
compagni ferrovieri avvertono che carri trasporto sono carichi di armi pesanti
diretti in Polonia, dichiarati carri agricoli. Siamo nel 1917, allo scoppio
della rivoluzione Russa. Li abbiamo fermati e fatti scaricare. Non diciamo di
più, il resto appartiene a noi, e a noi soli. […] Altri dirottamenti sempre di
armi belliche che la borghesia imperialista escogitava con la compiacenza e la
complicità dei mercanti di cannoni, sono stati fermati e accantonati nei binari
terminali sotto il nostro controllo. La nostra attività scorreva su due
direttive. Il controllo clandestino delle armi dirette in Polonia contro la
Russia. Il sabotaggio alla guerra di casa nostra che continuava a mietere
vittime e procurava sempre più lutti alle famiglie dei lavoratori” (Nino
Malara, Antifascismo anarchico …)
Bibliografia: Nino Malara, Antifascismo anarchico 1919-1945. A
quelli che rimasero, Sapere 2000, 1995, p. 50
Finita la guerra, durante il cosiddetto biennio rosso, divenuto
ferroviere fu uno dei principali , come esponente dell’Unione sindacale Italiana (USI), animatori degli
eventi rivoluzionari calabresi sino a quando la reazione fascista, con l’appoggio sistematico delle forze dell’ordine e il coinsenso del re, ascese al potere. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare: “ L’ottobre del 1920 è un mese di
lotte e continui scioperi e agitazioni. Non volevamo rassegnarci e il 15 e il
16 mettiamo in atto uno sciopero durissimo che anche nel compartimento di
Reggio Calabria ebbe pieno successo. Il boicottaggio, il sabotaggio, aiutano
dove lo sciopero non può arrivare. Il proletariato ha ormai in mano un’arma
spezzata e lo sa. Agli scioperi di
solidarietà e per le vittime politiche sempre più numerose si aggiungono quelli del primo maggio che
riusciamo a fare sia nel 1921 che nel 1922. Servono a ricordare una speranza di
emancipazione. Ci sono poi quelli contro la reazione, come quello di appoggio
alla vittoriosa resistenza dei lavoratori romani del rione San Lorenzo
all’attacco fascista. Ma non scacciano l’amarezza per le Camere del Lavoro
bruciate, per i compagni uccisi. […] Siamo in sciopero il 2-3 e 4 agosto del
1922. Sappiamo di agire più come spauracchio che in base ad una forza ed a una
volontà reale di lotta. L’ Alleanza del Lavoro era nata più per disperazione
che per convinzione unitaria, boicottata com’era dai comunisti e dagli stessi
socialisti. Ci buttammo come sempre nella mischia, consapevoli di rimanere soli
contro i fascisti, i quali, imbaldaziti a causa di un governo indeciso, aiutati
dalle forze dell’ordine, sicuri dell’inesistenza dell’opposizione socialista
messa alle corde dal terrore fascista, erano sicuri di vincere. […] Abbiamo
perso. (Nino Malara, Antifascismo anarchico …)
Bibliografia: Nino Malara, Antifascismo anarchico 1919-1945. A
quelli che rimasero, Sapere 2000, 1995, pp.66 e 67
In
una fase , ormai, di pesante
repressione, nel 1924 Nino Malara e Bruno Misefari decisero di dare vita a un
giornale anarchico, “L’Amico del Popolo”. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare: “ E in questo tragico momento di
turbolenta vita politica, in cui di ogni cosa non si capiva che cosa fosse, che
viene alla luce quasi clandestino a Reggio Calabria il foglio anarchico
“L’amico del Popolo”. […] Per tirare il primo numero del “L’Amico del Popolo”
le difficoltà finanziarie ostacolano il nostro lavoro. […] Bruno Misefari è
irrequieto per le difficoltà che non presentano soluzioni immediate. Bisogna
reperire il denaro occorrente almeno per il primo numero. Tutto il materiale è
già in tipografia per la composizione. Si continua a dialogare tra noi due, lui
quale direttore del giornale ed io responsabile, eravamo i soli impegnati verso
gli operai a fronteggiare le spese che il lavoro comporta. […]Il contributo che
avrebbe dovuto essere volontario fu stimolato dalla nostra azione diretta. […]
L’iniziativa del giornale, il volantinaggio dei manifestini, le conferenze
pubbliche e clandestine era quanto si poteva fare per non accettare passivamente
la dittatura di Mussolini. La nostra attività apparve con particolare evidenza
ai fascisti una sfida risoluta che veniva dal nostro cuore pieno di dolore, di
collera, di odio contro di loro. Nel dramma di quel momento quella è stata una
scelta che per noi volle significare la non accettazione della sconfitta. (Nino
Malara, Antifascismo anarchico …)
Bibliografia: Nino Malara, Antifascismo anarchico 1919-1945. A quelli che rimasero, Sapere 2000, 1995, pp. 66-67
Con un regime fascista sempre più consolidato si pose il problema per gli antifascisti di espatriare o di rimanere nella propria patria. Malara optò per questa soluzione e vi restò fedele, nonostante tutto, per tutta la durata del ventennio, cfr.brano da commentare)
Brano da commentare: “… La libertà di stampa è totalmente soppressa, le spedizioni punitive si estendo in tutto il territorio […] La violenza genera violenza e l’aria si fa irrespirabile. Nel dramma di quei giorni parve ormai tutto calpestato e perduto. Le famiglie temono le rappresaglie e vogliono evitarle respingendo noi. Gli amici non ti salutano per paura di essere compromessi. […] Nell’isolamento completo non ci siamo chiesti se fuggire all’estero o rimanere. Eravamo armati dalla volontà di affrontare la tracotanza fascista in casa nostra a tu per tu con l’avversario. Se noi andavamo via chi ci sarebbe rimasto a portare avanti le lotte, a rincuorare le masse. Il fascismo avrebbe avuto più che mai campo libero. Scapparono solo quelli che non ce la facevano a resistere, quelli che credettero di fare fuori d’’Italia più e meglio contro il fascismo. Scapparono soprattutto quelli che non potevano farne a meno, perché se no sarebbero morti. […] Alcuni di noi affrontarono il problema dei collegamenti; una specie di “corriere” fu creato per collegare i gruppi di compagni nella regione e con il resto d’Italia. I ferrovieri ci furono ancora una volta d’aiuto. Altri si diedero a organizzare nuclei di resistenza. Non era un’impresa facile tessere le fila on una milizia fascista alle costole, e con la polizia che manteneva spie pagate quali confidenti. …“ (Nino Malara, Antifascismo anarchico…)
Bibliografia: Nino Malara, Antifascismo anarchico 1919-1945. A quelli che rimasero, Sapere 2000, 1995, pp. 71-72
L’intensa attività antifascista di Nino Malara e tutte le battute d’arresto frapposte ad essa dalle forze dell’ordine sino alla sua assegnazione al confino di Favignana dal 18 novembre del 1926 e poi a Lipari dal 22marzo 1927 al 18 novembre 1931 sono puntualmente registrate dalla prefettura di Cosenza. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare: “ Nell’ aprile del 1925 egli si trasferì a Cosenza dove si impiegò quale operaio avventizio presso le Ferrovie Calabro-Lucane, ma dopo breve tempo fu licenziato per motivi disciplinari. Ritornò a Reggio senza però riuscire a trovare lavoro nel giugno u.s. ritornò a Cosenza, occupandosi nello stabilimento “Industrie Cosentine” per la costruzione dei mobili, lavorando da tornitore. Informata la questura di Cosenza sui precedenti politici del Malara, questi fu rigorosamente sorvegliato. Colà si mantenne in rapporto con tutti gli altri comunisti più accesi ed il 20 settembre da quella Questura fu denunziato in stato d’arresto all’Autorità Giudiziaria per complotto contro i poteri dello stato insieme al noto Fausto Gullo e ad altri comunisti. Il 24 dello stesso mese l’ Autorità Giudiziaria lo rimise in libertà per insufficienza di indizi. Trattasi di individuo pericoloso […] L’8 ottobre 1925 fu rimpatriato in questa città [ Reggio Calabria] con foglio di via obbligatorio ed è vigilato. […] Malara è assegnato al confino in quanto “ ferroviere licenziato per pessima condotta perché pericoloso comunista anbarchico capace di esaltarsi e poter compiere atti inconsulti. Senza lavoro stabile era in continuo contatto con ferrovieri licenziati e seminava in tutto l’ambiente ferroviario il malcontento in relazione con i comunisti di Reggio Calabria e Messina, egli diffondeva opuscoli e manifesti sovversivi” . ( Telegramma del prefetto di Cosenza al ministero dell’interno, 11 dicembre 1926, in ACS, CPC, b. 12837)
Bibliografia: Giovanni Cimbalo, La resistenza antifascista in Calabria di Nino Malara in Storie di lotta e anarchia in Calabria a cura di Piero Bevilacqua con una ricerca musicale di Francesca Prestia, Donzelli virgola, 2021 p. 151
Nel 1925 Malara aveva sposato a Cosenza una giovane modista
Giovanna Gairo, ma appena un anno dopo fu arrestato e condannato al confino per cinque anni . Quando dopo l'anno, trascorso a Favignae fu inviato a Lipari volontariamente la moglie lo seguì e gli restò accanto. Ebbero due figli, Ilenia ed Empio, noto architetto, urbanista e tra l’altro, autore del libro
biografico Lo specchio a tre ante, Chimera editore 2015) ). Sull' amore di Nino e Giovanna e la
loro storia vi è una bella canzone, Il
valzer di Nino e Giovanna di Francesca Prestia, di cui, purtroppo per le
solite ragioni di spazio, inserisco qui
solo la prima strofa. :
Cambiamo il pensiero
Liberiamo le persone
Con la moda e l’anarchia
È una rivoluzione.
Lo specchio a 3 ante
Con guanti e cappellini
Resistenza e lotta dura
Contro il duce Mussolini.
……………………………………
Discografia: CD
allegato alla rivista ApARTE 13.35
13 maggio 2019
Nel 1926 Malara venne condannato al confino a Favignana, chiamata nell’antichità, l’isola delle capre,
dove , tra l’altro, scoppiò un duro conflitto con il direttore del campo, che
voleva obbligare i confinati a fare il saluto fascista (brano da commentare.)
Brano da commentare: “ Il problema del saluto fascista
assume al confino dell’isola di Favignana
un significato di dura e sanguinosa lotta, quando una mattina, nel
distribuire la mazzetta (il suddidio giornaliero) previo appello , gli agenti
dissero: Da domani si saluta
fascisticamente . Fu un coro di sdegno e commenti. Più tardi arriva al
confino Iole Cantini, una ragazza…non avrà vent’anni. Le guardie la portano
nella direzione dal cavalier Toscano. Il direttore della colonia. Un criminale
al servizio della milizia fascista. Ordina di picchiare a sangue i confinati
che non piegano alle sua prepotenze. Il rifiuto della Iole è fiero. Come fiero
è stato il comportamento tenuto nel chiuso di quelle celle. La solidarietà fra
noi si è fatta più incisiva. La lotta più aperta. Per sfidare l’arroganza di
quell’uomo era necessario esprimere in termini chiari le idee che avevamo nel
cuore. Venne il domani per la sfida. […]Fare
la scimmia fascista è accademia di viltà, dissi. Accompagnati dai militi
giù nelle celle, le tane della paura. Siamo nella fossa, c’è sembrato di
morire. Una fossa da supplizi. Fu una lunga agonia di insulti e minacce. Sono
trascorse settimane e settimane a vivere di pane, acqua e frustate. Tormentare
il punito così fisicamente da svuotarlo
della vita. Le torture praticate nelle celle , l’arbitrio pazzesco
voluto dal direttore della colonia, la violenza selvaggia usata dalla milizia
fascista, prese corpo sulla stampa di molti paesi europei come sulle colonne
dell’Umanité in Francia. Venne fuori una protesta internazionale. Arrivano
all’isola di Favignana ispettori superiori del confuso regime fascista.
Inchieste sopra inchieste. Il cavaliere Toscano, direttore della Colonia,
l’uomo forte, è travolto. Uscimmo, con barbe cresciute, avvolti nelle
coperte . […] Fronteggiare concretamente
i sistemi perfezionati della repressione poliziesca, fascista, anche da
prigionieri [….] E’ stato un nostro impegno. Un impegno che voleva dire che
dentro e fuori del nostro paese c’era gente in carcere e al confino che il
governo fascista non riusciva a piegare. (Nino Malara, Antifascismo
anarchico …)
Bibliografia: Nino Malara, Antifascismo anarchico 1919-1945. A
quelli che rimasero, Sapere 2000, 1995, pp. 93, 94, 95. Purtroppo di Iole
Cantini non ho trovato ancora notizie e immagini.
Dopo due anni fu trasferito a Lipari, dove lo raggiunse come si è
detto, la moglie. Vi erano nell’isola molti noti compagni anarchici , tra cui Spartaco
Stagnetti, Pasquale Binazzi, Giovanni
Domaschi, Vincenzo Perrone, ( per un
certo periodo anche Luigi Galleani), la compagna Maria Ciarravano oltre a Carlo
Rosselli, Emilio Lussu, Francesco Nitti, e altri antifascisti. Apparentemente
la situazione sembrava molto migliore che a Favignana ma le provocazioni continue erano sempre in
agguato e la repressione infine esplose
in tutta la sua violenza. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare: “ Costituimmo delle scuole di insegnamento fra i confinati, sorsero
delle mense collettive frequentate da tutti. […] Si tenevano dibattiti
clandestini nelle regole della convivenza e del rispetto delle proprie idee e
di quelle degli altri. Queste iniziative autonome, che scaturivano da esigenze
morali e umane, questo bisogno di occupare una parte del tempo libero non
piacque … Le scuole chiuse. Le mense boicottate e sorvegliate. […] Ed ecco il regime che intensifica il suo braccio di
ferro per tentare di risalire la china, di conquistarsi un nuovo, più duro
prestigio. L’isola di Lipari con i suoi mille e più confinati viene assalita al
calar del sole. Un vapore salpato da Milazzo carico di carabinieri, poliziotti
e quintali di catene e chiavistelli, giunge al largo dell’isola pronto ad
intervenire. Le barche si fanno intorno al vapore e il carico giunge a terra. Ognuno
di noi corre ai ripari mettendo in salvo le donne. […] Uno sparo, e il crepitio dei mitra , dei
cannoncini piazzati sui canotti e sui motoscafi fermi nel porticciolo di Lipari domina sull’isola. Al baccano segue
la repressione strada per strada, casa per
casa. La gente di Lipari si disperde, è sconvolta. Un vecchio calzolaio,
scambiato forse per un confinato viene ucciso di botte di canna di pistola. Il
libertario Sollazzo di Parma viene ucciso a colpi di baionetta e gli viene
mozzato il collo. Giovanni di Filipex, slavo di Novek d’Istria , muore
ammazzato a calci di fucile. Vengono fermati circa duecento confinati e
imbastito un processo farsa che portò anni di carcere ai confinati. Gli
anarchici Tribuzzi , Rubbiati, Milo sono picchiati a sangue e ricoverati all’infermeria
di Lipari. Gli anarchici Giovanni Domaschi, Benetti Aladino, Strafelini,
Taormina Salvatore vengono fermati e incarcerati e messi in cella di rigore. La
repressione imperversa tutta la notte.
Verso le undici di sera tutte le case vengono visitate e gli occupanti
percosse a sangue. Si fa in tempo a far allontanare le poche donne che hanno
seguito i loro uomini al confino. Si allontanano i bambini affidandoli alla custodia degli
isolani. […] La repressione, l’arresto e il trasferimento, i processi
farsa, non riescono a diminuire la capacità di lotta…. ” (Nino Malara, Antifascismo
anarchico …)
Bibliografia: Nino Malara, Antifascismo anarchico 1919-1945. A
quelli che rimasero, Sapere 2000, 1995, pp. 120, 123, 124.
Liberato dal confino, si trasferì a Cosenza e si dedicò, durante la rivoluzione sociale in Spagna , al reclutamento clandestino di volontari calabresi. Spesso fu arrestato per motivi cautelari come per esempio nel 1939 per la visita di Mussolini a Cosenza. Scoppiata la seconda guerra mondiale svolse un importante ruolo nel coordinare azioni di propaganda anti fascista sui treni del meridione. Nel 1942 fu tra i promotori del “Fronte Unico della libertà”, di cui oltre ad altre forze politiche antifasciste, faceva parte il gruppo anarchico di “Unità proletaria”. Nel maggio 1945 si recò a Milano dove assistette, tra l’altro, al tentativo delle formazioni Malatesta- Bruzzi di porre in atto, dopo la vittoria partigiana sul nazi-fascismo, alcune importanti iniziative sociali.. (brano da commentare).
Brano da commentare: “ Puoi dirci, se oltre l’azione militare, i nostri compagni hanno tentato a realizzare conquiste sociali?” : Sì , qualcosa è stato realizzato in questo campo mediante l’azione diretta. I nostri compagni non appena il successo dell’insurrezione apparve assicurato e dopo aver compiuta, con le armi, l’ epurazione necessaria, la proprietà di alcune ditte appartenenti a fascisti venne immediatamente trasferita ai lavoratori che l’avevano difesa con il loro sangue e conservata con il proprio lavoro. Essi costituirono immediatamente cooperative e ripresero subito il lavoro a gestione propria. Così pure è avvenuto con le terre degli agricoltori fascisti e collaborazionisti . …”( Intervista a Nino Malara, L’insurrezione del Nord)
Bibliografia: Nino Malara, Antifascismo anarchico 1919-1945. A
quelli che rimasero, Sapere 2000, 1995, p. 141
Nel 1968 svolse un importante ruolo nelle lotte operaie e studentesche in Calabria divenendo un punto di riferimento importante per i compagni più giovani. Pur non condividendo completamente le idee del padre il rapporto tra il figlio Empio e Nino Malara si fece con il passare degli anni sempre più stretto. La sua morte gli lasciò un grande vuoto , ma , al tempo stesso, il ricordo del caloroso funerale del padre gli dette un nuovo slancio socialmente creativo. (cfr. brano da commentare)
Brano da commentare: “ Con mio padre , discutevamo accanitamente per capire cosa stesse succedendo, entrambi sedotti dall’ondata giovanile. Più convinto di me della rivoluzione culturale, Nino sembrava ringiovanito, e nonostante le mie raccomandazioni di non farsi troppe illusioni, aveva ripreso in pieno il suo attivismo, era diventato un punto di riferimento per i giovani cosentini , aderenti alla Fai. […] Qualche anno dopo mio padre si ammalò, io mi trovavo in difficoltà, mi sembrava di avere concluso la mia missione di architetto. Ero in piena crisi esistenziale. La sua malattia mi aveva privato della sua guida. Quando lui morì, al suo funerale tutti i giovani del circolo anarchico lo accompagnarono nel suo ultimo percorso. La bara, avvolta nella sua bandiera rossonera, portata a spalle dai suoi allievi… Non lo potevo immaginare un funerale così partecipato: Addio Lugano Bella … la canzone degli anarchici durante il percorso mi ricordava il compagno Bruno Misefari e la sua Pia, la sua fedele moglie svizzera, poetessa della verità. Quel giorno mi è rimasto impresso nella memoria, tanto era inaspettata la calda accoglienza di gioventù riservata a Nino. Era finita un’epoca ? Mi rifugiai nell’arte sociale. […] Insieme all’architetto Gianni Drago e al grafico Vittorio Gobbi rappresentammo a Ferrara una provocazione urbana, un omaggio all’antifascismo di mio padre. Un’azione per reclamare una società che consentisse a ciascuno di essere se stesso. Mio padre sarebbe stato felice di sapere che suo figlio era riuscito a svolgere un grande evento civile […] La mostra di Ferrara è stata, per me, una specie di catarsi, un modo per rinascere e per affrontare i nuovi temi ambientali e del paesaggio suggeriti da mio padre negli ultimi anni della sua vita. …“ ( testimonianza di Empio, figlio di Nino Malara, 30 agosto 2018)
Bibliografia: Empio Malara, La testimonianza di Empio, figlio di Nino Malara in Storie di lotta e anarchia in Calabria a cura di Piero Bevilacqua con una ricerca musicale di Francesca Prestia, Donzelli virgola, 2021 p. 170
ANTONIO CERUTTI (1902-1943) , operaio manovale, anarchico. Condannato per diserzione nel 1924, fuggì in Francia nel 1925. Fu arrestato a Parigi nel 1933 . Uscito dal carcere, dopo tre anni, riuscì a raggiungere la Spagna, dove intanto era scoppiata la rivoluzione sociale. Combatté nella "Columna de Hierro" sino all'aprile del 1937. Tornato a Parigi e più volte arrestato fu infine rinchiuso nel campo di Vernet. Nel 1940 fu consegnato dai francesi agli italiani, che lo inviarono al confino nell' isola di Ustica. Morì nel 1943 in seguito a gravi sofferenze fisiche e psichiche ( cfr. primo brano). Non disponendo, per il momento, di notizie più particolareggiate sui disagi sofferti da Cerutti, mi limito a ricordare le drammatiche condizioni della vita dei confinati divenute , durante gli anni della seconda guerra mondiale, persino peggiori ( cfr.secondo brano)
Brani da commentare: 1) " Le ultime notizie su di lui dalla "villegiatura" di Ustica sono drammatiche. Il 24 marzo '43 il direttore segnala che il confinato non dispone " di vestito, camicia e mutande" e circola praticamente nudo per la colonna. Il 17 aprile 1943 il direttore comunica al Ministero che " il confinato in oggetto è deceduto in questa infermeria della Colonia per esaurimento" ; 2) “ Con l’entrata in guerra dell’Italia le isole del Confino si vengono affollando in maniera inverosimile. […] Il numero dei confinati è considerevolmente aumentato, ma sono aumentati, in proporzione, i disagi e le continue difficoltà. Il trasporto dalla terra ferma dei viveri e delle provviste d’acqua è irregolarissimo. Sono frequenti i giorni nei quali i confinati rimangono senza pane e nulla da mangiare. Numerosi sono gli ammalati. La situazione va aggravandosi sempre più e diventa, in ultimo, disperata “ ( Anonimi compagni, 1914- 1945 un trentennio di attività anarchica)
Bibliografia: Primo brano in Abel Paz, Cronaca appassionata della Columna de Hierro, autoproduzioni fenix, 2006, p. 203 . Secondo brano in Anonimi compagni, 1914- 1945 un trentennio di attività anarchica , Samizdat p. 127
Per la tenace resistenza
di EMILIA BUONACOSA ai sorprusi e alle disumane condizioni di vita subite durante il confino di Ventottene, cfr.
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