THEODORE HERZL E BERNARD LAZARE |
Lucidamente consapevole
della minaccia dell’antisemitismo in Francia e in Europa, nel 1897 ,
BERNARD LAZARE , al culmine della
lotta progresista per la revisione del
processo Dreyfus, aderì al progetto sionista di THEODORE HERZL
( 1860-1904) Tuttavia ben presto Lazare dissentì, , come ben mise in evidenza ,nel
1942, Hannah Arendt. nel suo articolo
Herzl e Lazare. dalla strategia
politica adottata da Theodore Herzl e nel 1899 ruppe
con il movimento sionista , cfr. brano)
Brano da commentare: “ “ Nelle loro
successive carriere, entrambi si scontrarono duramente con le forze che in
quell’epoca controllavano la politica ebraica, cioè con i filantropi. Entrambi
avrebbero imparato da questi conflitti, nei quali consumarono tutte le loro
energie, che il popolo era minacciato non solo , dall’esterno dagli antisemiti,
ma anche dall’interno, dalla influenza dei suoi stessi “benefattori”: A questo
punto cessa l’analogia e comincia a delinearsi quella grande differenza che
doveva alla fine condurre i due uomini alla rottura, quando entrambi facevano
parte del comitato esecutivo dell’organizzazione sionista. La soluzione di
Herzl al problema ebraico consisteva, in ultima analisi, nella fuga, ovvero nel
mettersi in salvo in una patria. Alla luce del caso Dreyfus,
l’intero mondo dei gentili gli appariva ostile; non rimanevano ormai che ebrei
e antisemiti. Egli riteneva necessario trattare con questo mondo ostile e
persino con gli antisemiti dichiarati. Per lui non era affatto importante
quanto un gentile potesse essere ostile; era convinto che più un uomo era
antisemita, più avrebbe apprezzato i vantaggi di un esodo degli ebrei dall’
Europa. Per Lazare, d’altro canto, la questione del
territorio era poco importante: era semplicemente un effetto dell’esigenza
principale che “gli ebrei si emancipassero come popolo e si costuissero in nazione”. Quello che intendeva non era una fuga
dall’antisemitismo, ma una mobilitazione del popolo contro i suoi nemici. […]
Conseguenza di questo atteggiamento fu che egli non cercò protettori più o meno
antisemiti, ma veri e propri compagni d’armi che sperava di trovare all’interno
dei gruppi oppressi dell’Europa contemporanea. Sapeva che l’antisemitismo non
era un fenomeno né isolato né universale e che la vergognosa complicità delle
potenze, nei pogrom dell’Europa dell’ Est, era stata il sintomo di qualcosa di
molto più profondo, cioè dell’imminente crollo di tutti i valori morali sotto
la pressione della politica imperialista” ( Hannah Arendt, Herzl e Lazare)
Bibliografia: in Hannah Arendt, Ebraismo
e modernità ,
Universale Economica Feltrinelli, 1993, pp. 29-31
E’ noto come , il
tentativo di Bernard Lazare di dare vita a una mobilitazione di
tutti i popoli oppressi contro l’ideologia antisemita profondamente connessa
con le politiche capitalistiche e imperialiste dei grandi stati
europei, non raccolse nessun rilevante consenso, neanche
all’interno dei movimenti libertari e di sinistra del tempo, ed egli
fu sempre più emarginato politicamente. Ai giorni d’oggi, a mio
parere, si deve, tuttavia, constatare l'attualità delle sue critiche al sionismo
di Herzl e al modello, a cui esso si conformava, di nazionalismo
egoistico (francese, tedesco, inglese, ebraico, ecc.) . (cfr.
brano)
Brani da commentare : 1) " Dobbiamo
rivivere come un popolo, cioé come collettività libera, ma a condizione
che questa collettività non rappresenti l'immagine degli Stati capitalisti e
oppressori in mezzo ai quali viviamo“ ( Bernard Lazare, Le proletariat juif devant l'antisemitisme (1897); 2) “
Andare a Sion per essere sfruttato dall’ebreo ricco, che differenza rispetto alla situazione attuale? E’ questo ciò che
ci proponete: la patriottica gioia di essere represso soltanto da quelli della
propria razza; noi non lo vogliamo”. (Bernard Lazare, Contre le nationalism du sol ) 3) L ’ebreo che oggi dirà
“Io sono un nazionalista” non dirà in maniera particolare, precisa, netta
“Io sono un uomo che vuole ricostruire uno Stato ebraico in Palestina e che
sogna di riconquistare Gerusalemme”. Egli dirà: “Voglio essere un uomo
pienamente libero, voglio godere del sole, voglio avere il diritto alla
dignità umana. Voglio sfuggire all’oppressione, all’ oltraggio, al disprezzo
che si vuole riversare su di me “. In alcuni momenti della storia, il
nazionalismo è per alcuni gruppi umani la manifestazione dello spirito di
libertà. Sono tanto in contraddizione con le idee internazionaliste? In nessun
modo. Come mi accorderò dunque con esse? Semplicemente evitando di dare
alle parole un valore ed un senso che non hanno. Quando i socialisti combattono
il nazionalismo, combattono in realtà il protezionismo e l’esclusivismo
nazionale; combattono questo patriottismo sciovinista, gretto, assurdo, che
conduce i popoli a porsi gli uni di fronte agli altri come rivali o avversari
decisi a non accordarsi, senza grazia né pietà. L’egoismo delle nazioni è
odioso quanto quello degli individui ed è anche disprezzabile. Cosa
suppone l’internazionalismo? Ovviamente delle nazioni. Cosa significa essere
internazionalisti ? Certamente non significa stabilire tra le nazioni
legami d’amicizia diplomatica, ma di fraternità umana. Essere internazionalista
vuol dire abolire l’ordinamento economico-politico delle attuali nazioni,
poiché esso è fatto per difendere gli interessi privati dei popoli, o
piuttosto dei loro governanti, a scapito dei popoli vicini ….”. ( Bernard Lazare, Il
nazionalismo ebraico (1897)
Bibliografia:
Primo e secondo brano in Michael Lowy in Redenzione
ed utopia .
Bollati Boringhieri 1992 p. 201 e p. 203. Terzo brano in Bernard Lazare, Contro l’antisemitismo a cura di Massimo
Sestili, Datanews, 2004 pp. 97-98.
Questo brano si trova anche in Bernard Lazare, Il letame di Giobbe, Medusa, 2004,
pp.110-111
Un altro sionista ,
che pur essendo tra i primi ad aderire al movimento sionista
di Herzl non condivideva le idee politiche di Theodore Herzl espresse, nel
1896, nel suo libro “ Der Judenstaat” fu MARTIN BUBER
(1878 – 1965), tra i maggiori rappresentanti, secondo Michael Löwy, di una corrente genericamente, definita come “ebraica religiosa anarchicheggiante, insieme a FRANZ
ROSENZWEIG (1886-1929), LEO LӦWENTHAL ( 1900 - ?) , GERSCHOM SCHOLEM (
1897-1982) . (cfr. brano)
Brano da commentare: “ Questa corrente
costituisce, all’interno della generazione romantica ebraica ribelle del
volgere del secolo , quella in cui predomina la dimensione ebraica nazionale-culturale e religiosa. I suoi membri non hanno la
stessa posizione nei confronti del sionismo: Rosensweig non lo accetta, Löwenthal lo abbandona abbastanza rapidamente, mentre Buber e Scholem
aderiscono al movimento ma si ritrovano marginalizzati per la loro posizione
antistatalista. La loro religiosità profonda e carica di messianismo ha poco in
comune con il rituale ortodosso e le prescrizioni tradizionali. La loro aspirazione a un
rinnovamento nazionale ebraico non li conduce al nazionalismo politico e la
loro concezione dell’ebraismo resta profondamente segnata dalla cultura
tedesca. Tutti manifestano, in misura diversa, un obiettivo utopico di
tipo socialista libertario, più o meno vicino all’anarchismo, che articolano –
in maniera diretta o indiretta, esplicita o implicita – con la loro fede
religiosa messianica. Sono per la maggior parte critici del marxismo, che
considerano troppo centralista o troppo identificato con la civiltà industriale
(ad eccezione di Leo Löwenthal …” ( Michael Löwy, Redenzione e Utopia, 1988)
Bibliografia: in Michael Löwry, Redenzione
e utopia, Bollati-Boringhieri, 1992, p. 199
Data la grande notorietà del filosofo ebreo
tedesco Martin Buber mi sembra,
di potere sorvolare sulla sua sua
vita e sulla profonda amicizia che lo legò , in vita, a
GUSTAV LANDAUER e , pertanto, soffermarmi , solo , brevemente, su
alcuni aspetti del suo "sionismo" di lipo libertario e antistatalista . (cfr brano)
Brano da commentare: “ Sin dagli inizi del
moderno sionismo vi sono in esso due tendenze fondamentali il cui contrasto
affonda le proprie radici nella più profonda sfera dell’esistenza umana.
[…] Si possono interpretare le due diverse tendenze alla loro origine
come due differenti interpretazioni del concetto di “rinascita”. L’una comprese
con il termine di “rinascita” l’avvento di un vero Israele nel quale,
diversamente che nel deserto dell’esilio, spirito e vita non rimanessero
semplicemente l’uno accanto all’ altra, con il rispettivo ambito della propria
legge, ma lo spirito edificasse la vita come la propria casa, come la propria
stessa carne. Con rinascita non si intende qui soltanto una sicura
sussistenza del popolo in luogo di quella finora incerta, ma un’esistenza della
realizzazione invece di quella avuta finora, in cui idee prive di
realizzazione e realtà senza idee stanno le une separate dall’altra.
L’altra tendenza interpretò con il termine di “rinascita” semplicemente
normalizzazione. Ad un popolo “normale” appartengono la terra, la lingua e
l’indipendenza; queste devono essere recuperate, e non abbiamo bisogno di
occuparci di nient’altro, l’altro verrà da sé. Diventa normale e
rinascerai! […] Questo “sionismo “ è una profanazione del nome di Sion;
esso non è nient’altro che uno dei crassi nazionalismi dei nostri tempi, che
non riconoscono nessun’altra autorità al di sopra di sé se non l’interesse
–supposto!- della nazione. . […] Invece di aspirare a diventare una comunità
all’avanguardia entro un’alleanza mediorientale, ci si pose lo scopo di uno staterello che corre il rischio di vivere continuamente in conflitto
con il suo contesto geopolitico e di dovere indirizzare le sue migliori energie
all’ambito militare e non ai valori sociali e culturali. ….” ( Martin Buber , Due tipi di sionismo, in Beayot Hazman ,
27 maggio 1948)
Bibliografia: in Martin Buber, Una
terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba , Testi scelti e
introdotti da Paul Mendes-Flohr. Edizione italiana a
cura di Irene Kajon e Paolo Piccolella, Giuntina, 2008 pp. 257-258 e p.
259 e p. 260-261
MARTIN BUBER VECCHIO |
Tra i numerosi brani , in cui Buber riflette sui conflittuali rapporti, dopo l’arrivo in Palestina, tra ebrei e arabi, mi limito a citarne due che , a mio parere, costituiscono un presupposto fondamentale per una convivenza pacifica tra questi due popoli. (cfr. brani)
Brani da commentare: 1) “
Parlo della questione araba con lo sguardo rivolto, in modo chiaro e
serio, ai fatti in tutte le loro dure e terribili difficoltà. […] Ricordiamoci
– ma non abbiamo bisogno di ricordarci poiché ogni momento della nostra vita ne
porta i segni- come ci hanno considerato e ancora ci considerano ovunque gli
altri popoli, come l’estraneo, come l’inferiore. Guardiamoci dal considerare
ciò che non conosciamo abbastanza e ci risulta estraneo, come l’inferiore e dal
trattarlo come tale. Guardiamoci dal fare ad altri ciò che viene fatto a noi!
Certo, lo ripeto, l’autoaffermazione è il presupposto naturale di tutte le
nostre azioni, ma essa non è sufficiente.; in essa è implicata anche la
fantasia: la capacità di rappresentarsi l’anima dell’altro, dello straniero
secondo la realtà della propria anima. Non posso non fare una confessione: mi
ha spaventato vedere in Palestina quanto poco conosciamo l’uomo arabo. Non mi
illudo che attualmente vi sia un’armonia di interessi tra noi e gli arabi o
possa essere semplicemente prodotta. Tuttavia, nonostante tutta la differenza
di interessi, che proviene non solo dall’illusione e non solo dalla politica,
nonostante tutto è possibile una politica comune, poiché lì e qui questo paese
è amato, lì e qui si vuole il futuro di questo paese, dunque si ama insieme e
si vuole insieme: perciò è possibile lavorare insieme per questa terra …” ( frammento dal discorso di Martin Buber al XVI Congresso sionista (1929) ; 2) “
Ci è capitato dunque di avere vissuto e di vivere sostanzialmente in Palestina
non insieme agli Arabi ma soltanto accanto agli arabi. La conseguenza
di questo l’uno accanto all’altro, piuttosto che l’uno con l’altro, è che i
nostri “nemici” hanno trasformato l’”accanto” in un “contro”. Se fossimo stati
davvero pronti ad una reale con-vivenza gli ultimi eventi non sarebbero stati
possibili ( Martin Buber, Il muro del pianto (1929)
Bibliografia: in
Martin Buber, Una
terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba , Giuntina 2008 . Primo brano a pp. 110-11 e secondo brano a
p. 128
Sulla scia del “sionismo
utopistico” e messianico di Martin Buber , si pone, se ho capito bene, Donatella di Cesare , professore ordinario di
Filosofia Teoretica della Sapienza di Roma, con il suo interessante
libro, Israele, Terra, Ritorno, Anarchia, secondo cui
dalla presenza di Israele in
Palestina potrebbe, contrariamente a
quanto sta avvenendo, avere inizio una nuova comunità organica, e cioè una “comunità
delle comunità”,
così come si erano augurati pensatori
come Martin Buber, l’anarchico Gustav Landauer , Hannah Arendt ed altri, che non può essere uno
Stato, ma un processo che aspira a far rinascere il principio
comunitario, che, pur con dei limiti era
presente nei primi kibbutz
ebraici in Palestina .(cfr. brano).
Brano da commentare: “ Il ritorno del
popolo ebraico al deserto, varco verso la Terra promessa, è un evento la cui
portata è ancora difficile da valutare . Ma certo non è un evento riducibile a
una storia particolare o nazionale.
Sebbene il ritorno abbia preso forma stanziale e statuale, passando per
la via di uno stato, Israele rappresenta un’emergenza nell’ordine statocentrico del mondo. A partire dallo Stato di Israele,
apparentemente indagato nel suo stare, in realtà inquisito nel suo essere, la
questione ebraica ha assunto dimensioni planetarie. Il che è peraltro un tratto
che caratterizza l’età della
globalizzazione. […] L’esistenza dello
Stato di Israele costituirebbe l’esito di un ritorno imprevisto e indesiderato,
l’intrusione dell’estraneo, l’irruzione dell’illegittimo. Il “peccato
originale” che ne avrebbe segnato la nascita, sarebbe quella di avere scalzato,
come popolo straniero e occupante, un popolo autoctono, cioè indigeno, nativo,
locale. Ma in realtà si possono sfidare tutti i popoli a provare il loro
diritto. Israele irrita, dunque la sovrana autocoscienza delle nazioni che
vanto le loro radici nella terra, la loro presunta identità territoriale. E’
come se – per la sua irriducibile estraneità – Israele sollevasse la domanda:
chi sono gli abitanti originari, gli autoctoni, di questa terra, e di ogni
terra? Il popolo ebraico ricorda a sé e agli altri che sulla terra tutti sono
ospiti temporanei “stranieri residenti”. Rispetto a chi crede di essere
radicato sin dall’origine, lo straniero, pur essendo residente, ha un rapporto
del tutto diverso con la terra, con l’altro, con se stesso. E’ questa
possibilità aperta di un nuovo abitare che il popolo ebraico è chiamato a testimoniare. Si gioca qui
l’avvenire di una promessa. In discussione non sono dunque tanto i limiti e i
confini, quanto la possibilità di una nuova cittadinanza. In tal senso il
ritorno di Israele rappresenta uno scandalo per tutte le nazioni, la minaccia
di un superamento dello stato-nazione, l’apertura di un nuovo ordine
mondiale […] Israele appare più che mai
laboratorio politico della globalizzazione [… ] Il futuro dell'utopia
socialista sta nell'esplorare gli infiniti modi in cui comunità autonome e
autogestite possano inventare nuove forme di vita. E nel suo "esemplare
non naufragio" il kibbutz, la comune ebraica in Israele, resta un
punto fermo. Tanto più in un mondo che - come prevede Buber -
richiederà presto una amministrazione comune. Alle soglie della globalizzazione
incipiente il pericolo viene additato in un illimitato potere planetario, una
sorta di stato mondiale, la chance effettiva, invece, in una "comunità di
comunità“ , in uno sviluppo autonomo di comunità diverse e diversamente
organizzate il cui legame è quello del dialogo." (Donatella di Cesare, Israele, Terra, Ritorno,
Anarchia, ..... 2014)
Bibliografia: Donatella di Cesare, Israele,
Terra, Ritorno, Anarchia, Bollati-Boringhieri , 2014, pp. 15-16 e p.
38
Prescindendo da questa
impostazione, prevalentemente messianica e religiosa ( nel senso più buono
possibile della parola) del sionismo libertario bisogna comunque tener
conto che , prima della nascita dello Stato d’Israele, esisteva anche un’ altra versione sionista libertaria più laica,
antistatalista, anticapitalista e anticolonialista, come si deduce , tra
l’altro, da un' intervista, nel 2014, di Frank Barat a
Noam Chomsky, in cui viene,
inoltre, ben messo in evidenza l’esito
tragico ( guerre, occupazione,
ingiustizia nel confronti del popolo palestinese ), del passaggio da un
sionismo di tipo libertario al sionismo statalista e capitalista, che portò nel 1948 alla nascita dello Stato d'Israele. ( cfr. brano)
Brano da commentare: FB: “Esiste una definizione
del sionismo moderno? Chi sono oggi i sionisti?“ NC: Anche in questo caso bisogna innanzitutto
esaminare il passato. Il
sionismo dell’epoca precedente alla fondazione dello Stato era una cosa diversa
rispetto a quello del periodo posteriore. Dal 1948 in poi il sionismo è
diventato l’ideologia e anzi la religione dello Stato, esattamente come l’americazionismo o l’eccezionalismo francese. E anche dopo il 48, la nozione
di sionismo ha subito delle modifiche. Nel 1964 trascorsi un po’ di tempo in
Israele e ricordo che per gli intellettuali di sinistra il sionismo era una
specie di barzelletta, una propaganda da bambini. Appena tre anni dopo , nel
1967, tutto cambiò e quelle stesse
persone diventarono dei nazionalisti convinti; vi fu una profonda
trasformazione nel modo in cui gli israeliani percepivano se stessi e la
fisionomia dello Stato. In sostanza, prima del 1948 il sionismo non era una
religione di Stato. Io stesso, a metà degli anni quaranta, sono stato un leader
studentesco sionista, per quanto fermamente contrario a uno Stato ebraico. Ero
a favore di una collaborazione tra la classe operaia ebraica e quella araba per
la costruzione di una Palestina socialista, ma aborrivo l’idea di uno Stato
ebraico. Sono stato un leader studentesco sionista perché allora il sionismo
non era una religione di Stato. Ancor prima, mio padre e la sua generazione
avevano aderito al sionismo, ma della corrente di Ahad Ha’
am:
erano alla ricerca di un epicentro culturale in cui la diaspora potesse
finalmente convivere con i palestinesi. Questo fermento ebbe fine nel 1948; da
quel momento il sionismo divenne in pratica una religione di Stato, che impresse alle scelte politiche un
abbrivio ben diverso. E’ fondamentale tenere a mente questo cambio di rotta
“ ( Noam Chomsky intervistato da Frank Barat,
Bruxelles , settembre 2014)
Bibliografia: in Noam Chomsky-Ilan Pappé ,
Palestina ed Israele che fare?. Fazi editore, 2015, p. 62
NOTA: SI VEDANO SU QUESTO TEMA ANCHE I POST: ANARCHISMO E ANTISEMITISMO. " L'AFFAIRE DREYFUS" ; VILLAGGI COMUNITARI EBRAICI IN PALESTINA...... ; MOVIMENTI ANARCHICI E LIBERTARI DEL XXI SECOLO, 2 ..........
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