giovedì 28 aprile 2011

ANARCHICINI: SIONISMO LIBERTARIO : BERNARD LAZARE (1865-1906) e MARTIN BUBER (1878-1965)

    
THEODORE HERZL E BERNARD LAZARE
Lucidamente consapevole della minaccia dell’antisemitismo  in Francia e in Europa, nel 1897 , BERNARD LAZARE , al culmine della lotta progresista per la revisione del processo Dreyfus, aderì al progetto sionista di THEODORE HERZL (  1860-1904)  Tuttavia ben presto Lazare  dissentì, , come  ben mise in evidenza ,nel 1942,  Hannah Arendt.  nel suo articolo Herzl e Lazare. dalla strategia politica adottata da Theodore Herzl e nel 1899 ruppe con  il movimento sionista , cfr. brano)
Brano da commentare: “ “ Nelle loro successive carriere, entrambi si scontrarono duramente con le forze che in quell’epoca controllavano la politica ebraica, cioè con i filantropi. Entrambi avrebbero imparato da questi conflitti, nei quali consumarono tutte le loro energie, che il popolo era minacciato non solo , dall’esterno dagli antisemiti, ma anche dall’interno, dalla influenza dei suoi stessi “benefattori”: A questo punto cessa l’analogia e comincia a delinearsi quella grande differenza che doveva alla fine condurre i due uomini alla rottura, quando entrambi facevano parte del comitato esecutivo dell’organizzazione sionista. La soluzione di Herzl al problema ebraico consisteva, in ultima analisi, nella fuga, ovvero nel mettersi in salvo in una patria. Alla luce del caso Dreyfus, l’intero mondo dei gentili gli appariva ostile; non rimanevano ormai che ebrei e antisemiti. Egli riteneva  necessario trattare con questo mondo ostile e persino con gli antisemiti dichiarati. Per lui non era affatto importante quanto un gentile  potesse essere ostile; era convinto che più un uomo era antisemita, più avrebbe apprezzato i vantaggi di un esodo degli ebrei dall’ Europa. Per Lazare, d’altro canto, la questione del territorio era poco importante: era semplicemente un effetto dell’esigenza principale che “gli ebrei si emancipassero come popolo e si costuissero in nazione”. Quello che intendeva non era una fuga dall’antisemitismo, ma una mobilitazione del popolo contro i suoi nemici. […] Conseguenza di questo atteggiamento fu che egli non cercò protettori più o meno antisemiti, ma veri e propri compagni d’armi che sperava di trovare all’interno dei gruppi oppressi dell’Europa contemporanea. Sapeva che l’antisemitismo non era un fenomeno né isolato né universale e che la vergognosa complicità delle potenze, nei pogrom dell’Europa dell’ Est, era stata il sintomo di qualcosa di molto più profondo, cioè dell’imminente crollo di tutti i valori morali sotto la pressione della politica imperialista” ( Hannah Arendt, Herzl e Lazare)
Bibliografia: in  Hannah Arendt, Ebraismo e modernità , Universale Economica Feltrinelli, 1993, pp. 29-31

E’ noto  come , il  tentativo di Bernard Lazare  di dare vita  a  una mobilitazione di tutti i popoli oppressi contro l’ideologia antisemita profondamente connessa con le politiche  capitalistiche e  imperialiste dei grandi stati europei, non raccolse  nessun rilevante consenso, neanche   all’interno  dei movimenti libertari e di sinistra del tempo, ed egli fu  sempre più emarginato  politicamente. Ai giorni d’oggi, a mio parere, si deve, tuttavia, constatare l'attualità delle sue critiche al sionismo  di Herzl  e al modello, a cui esso si conformava, di  nazionalismo  egoistico  (francese, tedesco, inglese, ebraico, ecc.)  . (cfr. brano)
Brani da commentare : 1)   " Dobbiamo  rivivere come un  popolo, cioé come collettività libera, ma a condizione che questa collettività non rappresenti l'immagine degli Stati capitalisti e oppressori in mezzo ai quali viviamo“ ( Bernard Lazare, Le proletariat juif devant l'antisemitisme (1897); 2) “ Andare a Sion per essere sfruttato dall’ebreo ricco, che differenza rispetto alla situazione attuale? E’ questo ciò che ci proponete: la patriottica gioia di essere represso soltanto da quelli della propria razza; noi non lo vogliamo”.  (Bernard Lazare, Contre le nationalism du sol ) 3) L ’ebreo che oggi dirà “Io sono  un nazionalista” non dirà in maniera particolare, precisa, netta “Io sono un uomo che vuole ricostruire uno Stato ebraico in Palestina e che sogna di riconquistare Gerusalemme”. Egli dirà: “Voglio essere  un uomo pienamente  libero, voglio godere del sole, voglio avere il diritto alla dignità umana. Voglio sfuggire all’oppressione, all’ oltraggio, al disprezzo che si vuole riversare su di me “. In alcuni momenti della storia, il nazionalismo è per alcuni gruppi umani la manifestazione dello spirito di libertà. Sono tanto in contraddizione con le idee internazionaliste? In nessun modo. Come mi accorderò  dunque con esse? Semplicemente evitando di dare alle parole un valore ed un senso che non hanno. Quando i socialisti combattono il nazionalismo, combattono in realtà il protezionismo e l’esclusivismo nazionale; combattono questo patriottismo sciovinista, gretto, assurdo, che conduce i popoli a porsi gli uni di fronte agli altri come rivali o avversari decisi a non accordarsi, senza grazia né pietà. L’egoismo delle nazioni è odioso quanto quello degli individui ed è anche disprezzabile.  Cosa suppone l’internazionalismo? Ovviamente delle nazioni. Cosa significa essere internazionalisti ? Certamente non significa stabilire  tra le nazioni legami d’amicizia diplomatica, ma di fraternità umana. Essere internazionalista vuol dire abolire l’ordinamento economico-politico delle attuali nazioni, poiché esso è fatto  per difendere gli interessi privati dei popoli, o piuttosto dei loro governanti, a scapito dei popoli vicini ….”. ( Bernard Lazare, Il nazionalismo ebraico  (1897) 
Bibliografia:    Primo e secondo brano in   Michael  Lowy in  Redenzione ed utopia . Bollati Boringhieri 1992 p. 201 e p. 203. Terzo brano in  Bernard Lazare, Contro l’antisemitismo a cura di Massimo Sestili, Datanews, 2004 pp. 97-98.  Questo brano si trova anche in  Bernard Lazare, Il letame di Giobbe, Medusa, 2004, pp.110-111
                                                                                  
MARTIN BUBER GIOVANE

Un altro sionista , che  pur essendo tra i primi ad aderire al  movimento sionista  di Herzl non condivideva le idee politiche di  Theodore Herzl espresse, nel 1896,  nel suo libro “ Der Judenstaat fu MARTIN BUBER  (1878 – 1965), tra i maggiori rappresentanti, secondo   Michael Löwy, di una corrente genericamente, definita come “ebraica religiosa anarchicheggiante, insieme a  FRANZ ROSENZWEIG (1886-1929), LEO  LӦWENTHAL  ( 1900 - ?) , GERSCHOM SCHOLEM ( 1897-1982) . (cfr. brano)
Brano da commentare: “ Questa corrente costituisce, all’interno della generazione romantica ebraica ribelle del volgere del secolo , quella in cui predomina la dimensione  ebraica nazionale-culturale e religiosa. I suoi membri non hanno la stessa posizione nei confronti del sionismo: Rosensweig non lo accetta, Löwenthal lo abbandona abbastanza rapidamente, mentre Buber e Scholem aderiscono al movimento ma si ritrovano marginalizzati per la loro posizione antistatalista. La loro religiosità profonda e carica di messianismo ha poco in comune con il rituale ortodosso e le prescrizioni tradizionali.  La loro aspirazione a un rinnovamento nazionale ebraico non li conduce al nazionalismo politico e la loro concezione dell’ebraismo resta profondamente segnata dalla cultura tedesca. Tutti manifestano, in misura diversa, un obiettivo  utopico di tipo socialista libertario, più o meno vicino all’anarchismo, che articolano – in maniera diretta o indiretta, esplicita o implicita – con la loro fede religiosa messianica. Sono per la maggior parte critici del marxismo, che considerano troppo centralista o troppo identificato con la civiltà industriale (ad eccezione di Leo  Löwenthal  …” (  Michael Löwy, Redenzione e Utopia, 1988)

Bibliografia: in Michael Löwry, Redenzione e utopia, Bollati-Boringhieri, 1992, p. 199
 
Data la  grande notorietà  del filosofo ebreo tedesco  Martin Buber  mi sembra,  di  potere  sorvolare sulla sua sua vita  e sulla profonda amicizia che lo legò , in vita,  a  GUSTAV  LANDAUER  e , pertanto, soffermarmi , solo , brevemente, su alcuni aspetti del suo "sionismo" di lipo libertario e antistatalista . (cfr brano)
Brano da commentare: “ Sin dagli inizi del moderno sionismo vi sono in esso due tendenze fondamentali il cui contrasto affonda le proprie radici nella più profonda sfera  dell’esistenza umana. […] Si possono interpretare le due  diverse tendenze alla loro origine come due differenti interpretazioni del concetto di “rinascita”. L’una comprese con il termine di “rinascita” l’avvento di un vero Israele nel quale, diversamente che nel deserto dell’esilio, spirito e vita non rimanessero semplicemente l’uno accanto all’ altra, con il rispettivo ambito della propria legge, ma lo spirito edificasse la vita come la propria casa, come la propria stessa carne.  Con rinascita non si intende qui soltanto una sicura sussistenza del popolo in luogo di quella finora incerta, ma un’esistenza della realizzazione invece  di quella avuta finora, in cui idee prive di realizzazione e realtà senza idee stanno le une separate dall’altra.  L’altra tendenza interpretò con il termine di “rinascita” semplicemente  normalizzazione. Ad un popolo “normale” appartengono la terra, la lingua e l’indipendenza; queste devono essere recuperate, e non abbiamo bisogno di occuparci di nient’altro, l’altro verrà da sé.  Diventa normale e rinascerai! […] Questo  “sionismo “ è una profanazione del nome di Sion; esso non è nient’altro che uno dei crassi nazionalismi dei nostri tempi, che non riconoscono nessun’altra autorità al di sopra di sé se non l’interesse –supposto!- della nazione. . […] Invece di aspirare a diventare una comunità all’avanguardia entro un’alleanza mediorientale, ci si pose lo scopo di uno staterello che corre il rischio di vivere  continuamente in conflitto con il suo contesto geopolitico e di dovere indirizzare le sue migliori energie all’ambito militare e non ai valori sociali e culturali. ….” ( Martin Buber , Due tipi di sionismo,  in  Beayot Hazman , 27 maggio 1948)
Bibliografia:  in  Martin Buber, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba , Testi scelti e introdotti da Paul Mendes-Flohr. Edizione italiana a cura di Irene Kajon e Paolo PiccolellaGiuntina, 2008 pp. 257-258 e p. 259 e p. 260-261
                                                                            
MARTIN BUBER VECCHIO

Tra i numerosi brani , in cui Buber riflette  sui conflittuali rapporti, dopo l’arrivo in Palestina, tra ebrei e arabi, mi limito a citarne due  che , a mio parere, costituiscono un presupposto fondamentale per una convivenza pacifica  tra  questi due popoli. (cfr. brani)
Brani da commentare:  1) “  Parlo della questione araba con lo sguardo rivolto, in modo chiaro e serio, ai fatti in tutte le loro dure e terribili difficoltà. […] Ricordiamoci – ma non abbiamo bisogno di ricordarci poiché ogni momento della nostra vita ne porta i segni- come ci hanno considerato e ancora ci considerano ovunque gli altri popoli, come l’estraneo, come l’inferiore. Guardiamoci dal considerare ciò che non conosciamo abbastanza e ci risulta estraneo, come l’inferiore e dal trattarlo come tale. Guardiamoci dal fare ad altri ciò che viene fatto a noi! Certo, lo ripeto, l’autoaffermazione è il presupposto naturale di tutte le nostre azioni, ma essa non è sufficiente.; in essa è implicata anche la fantasia: la capacità di rappresentarsi l’anima dell’altro, dello straniero secondo la realtà della propria anima. Non posso non fare una confessione: mi ha spaventato vedere in Palestina quanto poco conosciamo l’uomo arabo. Non mi illudo che attualmente vi sia un’armonia di interessi tra noi e gli arabi o possa essere semplicemente prodotta. Tuttavia, nonostante tutta la differenza di interessi, che proviene non solo dall’illusione e non solo dalla politica, nonostante tutto è possibile una politica comune, poiché lì e qui questo paese è amato, lì e qui si vuole il futuro di questo paese, dunque si ama insieme e si vuole insieme: perciò è possibile lavorare insieme per questa terra …”  ( frammento dal discorso di Martin Buber  al XVI Congresso sionista (1929)  ; 2)  “ Ci è capitato dunque di avere vissuto e di vivere sostanzialmente in Palestina non insieme agli Arabi  ma   soltanto accanto agli arabi. La conseguenza di questo l’uno accanto all’altro, piuttosto che l’uno con l’altro, è che i nostri “nemici” hanno trasformato l’”accanto” in un “contro”. Se fossimo stati davvero pronti ad una reale con-vivenza gli ultimi eventi non sarebbero stati possibili ( Martin Buber, Il muro del pianto (1929) 
Bibliografia:  in Martin Buber, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba , Giuntina 2008  . Primo brano a pp. 110-11 e secondo brano a p. 128

Sulla scia del “sionismo utopistico”  e messianico di Martin Buber   , si pone, se ho capito bene,  Donatella di Cesare , professore ordinario di Filosofia Teoretica della Sapienza di Roma,  con il suo interessante libro, Israele, Terra, Ritorno, Anarchia,  secondo  cui dalla  presenza di Israele in Palestina  potrebbe, contrariamente a quanto sta avvenendo, avere inizio una nuova  comunità organica, e cioè una “comunità delle comunità”, così come si erano augurati  pensatori come  Martin Buber, l’anarchico Gustav LandauerHannah Arendt ed altri, che  non può essere  uno  Stato, ma un processo che aspira a far rinascere il principio comunitario, che, pur  con dei limiti era presente  nei primi  kibbutz  ebraici in Palestina .(cfr. brano). 
Brano da commentare: “ Il ritorno del popolo ebraico al deserto, varco verso la Terra promessa, è un evento la cui portata è ancora difficile da valutare . Ma certo non è un evento riducibile a una storia particolare o nazionale.  Sebbene il ritorno abbia preso forma stanziale e statuale, passando per la via di uno stato, Israele rappresenta un’emergenza nell’ordine statocentrico del mondo.  A partire dallo Stato di Israele, apparentemente indagato nel suo stare, in realtà inquisito nel suo essere, la questione ebraica ha assunto dimensioni planetarie. Il che è peraltro un tratto che  caratterizza l’età della globalizzazione. […]  L’esistenza dello Stato di Israele costituirebbe l’esito di un ritorno imprevisto e indesiderato, l’intrusione dell’estraneo, l’irruzione dell’illegittimo. Il “peccato originale” che ne avrebbe segnato la nascita, sarebbe quella di avere scalzato, come popolo straniero e occupante, un popolo autoctono, cioè indigeno, nativo, locale. Ma in realtà si possono sfidare tutti i popoli a provare il loro diritto. Israele irrita, dunque la sovrana autocoscienza delle nazioni che vanto le loro radici nella terra, la loro presunta identità territoriale. E’ come se – per la sua irriducibile estraneità – Israele sollevasse la domanda: chi sono gli abitanti originari, gli autoctoni, di questa terra, e di ogni terra? Il popolo ebraico ricorda a sé e agli altri che sulla terra tutti sono ospiti temporanei “stranieri residenti”. Rispetto a chi crede di essere radicato sin dall’origine, lo straniero, pur essendo residente, ha un rapporto del tutto diverso con la terra, con l’altro, con se stesso. E’ questa possibilità aperta di un  nuovo abitare che il popolo ebraico è chiamato a testimoniare. Si gioca qui l’avvenire di una promessa. In discussione non sono dunque tanto i limiti e i confini, quanto la possibilità di una nuova cittadinanza. In tal senso il ritorno di Israele rappresenta uno scandalo per tutte le nazioni, la minaccia di un superamento dello stato-nazione, l’apertura di un nuovo ordine mondiale  […] Israele appare più che mai laboratorio politico della globalizzazione [… ] Il futuro dell'utopia socialista sta nell'esplorare gli infiniti modi in cui comunità autonome e autogestite possano inventare nuove forme di vita. E nel suo "esemplare non naufragio" il kibbutz, la comune ebraica in  Israele, resta un punto fermo. Tanto più in un mondo che - come prevede Buber - richiederà presto una amministrazione comune. Alle soglie della globalizzazione incipiente il pericolo viene additato in un illimitato potere planetario, una sorta di stato mondiale, la chance effettiva, invece, in una "comunità di comunità“ , in uno sviluppo autonomo di comunità diverse e diversamente organizzate il cui legame è quello del dialogo."  (Donatella di Cesare, Israele, Terra, Ritorno, Anarchia, ..... 2014) 
Bibliografia: Donatella di Cesare, Israele, Terra, Ritorno, Anarchia, Bollati-Boringhieri , 2014, pp. 15-16 e p. 38


Prescindendo da questa impostazione, prevalentemente messianica e religiosa ( nel senso più buono possibile della parola) del sionismo libertario bisogna comunque tener conto che , prima della nascita dello Stato d’Israele, esisteva anche un’ altra  versione sionista libertaria più laica, antistatalista, anticapitalista e anticolonialista, come si deduce , tra l’altro, da un' intervista, nel 2014, di Frank Barat a Noam Chomsky, in cui  viene, inoltre,  ben messo in evidenza l’esito tragico  ( guerre, occupazione, ingiustizia nel confronti del popolo palestinese ), del passaggio da un sionismo di tipo libertario al   sionismo statalista e capitalista, che portò nel 1948 alla nascita dello Stato d'Israele.  ( cfr. brano)
 Brano da commentare:  FB:Esiste una definizione del sionismo moderno? Chi sono oggi i sionisti?“  NC:  Anche in questo caso bisogna innanzitutto esaminare il passato.  Il sionismo dell’epoca precedente alla fondazione dello Stato era una cosa diversa rispetto a quello del periodo posteriore. Dal 1948 in poi il sionismo è diventato l’ideologia e anzi la religione dello Stato, esattamente come l’americazionismo o l’eccezionalismo francese. E anche dopo il 48, la nozione di sionismo ha subito delle modifiche. Nel 1964 trascorsi un po’ di tempo in Israele e ricordo che per gli intellettuali di sinistra il sionismo era una specie di barzelletta, una propaganda da bambini. Appena tre anni dopo , nel 1967, tutto cambiò  e quelle stesse persone diventarono dei nazionalisti convinti; vi fu una profonda trasformazione nel modo in cui gli israeliani percepivano se stessi e la fisionomia dello Stato. In sostanza, prima del 1948 il sionismo non era una religione di Stato. Io stesso, a metà degli anni quaranta, sono stato un leader studentesco sionista, per quanto fermamente contrario a uno Stato ebraico. Ero a favore di una collaborazione tra la classe operaia ebraica e quella araba per la costruzione di una Palestina socialista, ma aborrivo l’idea di uno Stato ebraico. Sono stato un leader studentesco sionista perché allora il sionismo non era una religione di Stato. Ancor prima, mio padre e la sua generazione avevano aderito al sionismo, ma della corrente di Ahad Ha’ am: erano alla ricerca di un epicentro culturale in cui la diaspora potesse finalmente convivere con i palestinesi. Questo fermento ebbe fine nel 1948; da quel momento il sionismo divenne in pratica una religione di  Stato, che impresse alle scelte politiche un abbrivio ben diverso. E’ fondamentale tenere a mente questo cambio di rotta “  ( Noam Chomsky intervistato da Frank Barat, Bruxelles , settembre 2014)

Bibliografia: in Noam Chomsky-Ilan Pappé , Palestina ed Israele che fare?. Fazi editore,   2015, p. 62
 

NOTA: SI VEDANO SU QUESTO TEMA ANCHE I POST:  ANARCHISMO E ANTISEMITISMO. " L'AFFAIRE DREYFUS" ;  VILLAGGI COMUNITARI EBRAICI IN PALESTINA...... ; MOVIMENTI ANARCHICI E LIBERTARI DEL XXI SECOLO, 2 ..........


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